Minneapolis, dov’è stato ucciso George Floyd, cuore della rivolta nera, è anche la città con il dipartimento di polizia più progressista. Ed è da quella città che sta emergendo una critica radicale che riguarda la destinazione dei fondi pubblici, le tasse delle comunità nere e i “tanti piccoli Obama”.
Mentre erano in corso le elezioni che avrebbero visto JF Kennedy vincitore su Richard Nixon io stavo frequentando l’ultimo anno di liceo alla John Hopkins High School di Minneapolis. Nel corso di quell’anno, grazie principalmente a mio padre, americano, che era editor del Minneapolis Star and Tribune, ho avuto modo di visitare la democrazia americana nelle sue varie sfaccettature, dall’incontro con i giovani impegnati nel nascente movimento dei diritti civili che rischiando la pelle – andavano al Sud a convincere i neri a iscriversi alle liste per avere il diritto di voto -, al sistema di governo locale in cui i cittadini pagando le tasse decidevano anche largamente come sarebbero state spese, ad es: se costruire un nuovo edificio scolastico o ampliarne uno esistente, quali attrezzature sportive e quale cura del verde, oltre al finanziamento della polizia locale e la definizione dei suoi compiti nello statuto della città, anch’esso discusso in varie sedi e alla fine approvato attraverso referendum.
Praticamente a 16-17 anni conoscevo molto meglio il funzionamento della democrazia americana di quella italiana. L’élite intellettuale che la mia famiglia Usa frequentava considerava in generale il Minnesota (noto come “la terra dei mille laghi”), ma in particolare la città di Minneapolis come quella in assoluto più open minded, più “socialdemocratica” degli Usa, abitata com’era da una grossa fetta della immigrazione dal nord Europa e in particolare dalla Svezia, polpettine svedesi ogni domenica.
Tutto questo per dire che quando quattro agenti della polizia di Minneapolis hanno ucciso per soffocamento George Floyd mentre era sotto la loro custodia, la cosa mi ha toccato personalmente in molti modi. Accanto all’orrore e al dispiacere anche un senso di meraviglia, e invece nessuno stupore quando il consiglio comunale delle Twin Cities, Minneapolis e Saint Paul (MSP) ha deciso alla unanimità di sciogliere il corpo della polizia locale e il suo sindacato. Meraviglia: perché la polizia di Minneapolis è una con più fondi stanziati per addestramento in approcci e tecniche tese ad evitare episodi del genere. Nessuno stupore sul suo scioglimento: perché essere accusati di essere “i più razzisti” quando tutta la retorica identitaria è basata sulla fierezza dell’opposto, provoca facilmente una reazione del tipo: “Vi facciamo vedere noi”, di cosa siamo capaci.
Tutto questo ha fatto scattare il desiderio di capire meglio cosa sta succedendo, di contestualizzare questo episodio raffrontandolo con situazioni analoghe in altre città e specialmente capire meglio le differenze fra questa particolare esplosione di indignazione e di rabbia e le precedenti rivolte contro la violenza della polizia, l’evoluzione in corso nel movimento Black Lives Matter e le implicazioni sulla vita politica nonché sulle elezioni presidenziali di novembre.
Elenco e illustro, qui sotto, un paio di cose che ho scoperto e che non mi sembrano sufficientemente sottolineate nel dibattito pubblico italiano ed europeo.
Una premessa sulle fonti: quella principale è ovviamente Internet, grazie al quale è possibile ri-ascoltare il discorso del giovane sindaco di MSP e i commenti dei vari consiglieri comunali sulla decisione di smantellare il corpo di polizia locale, leggere le recenti interviste del New Yorker o del Rolling Stone Magazine alle fondatrici di BLM e ad altri attivisti sulle caratteristiche del movimento durante il Covid 19, ecc
Ma la prima “scoperta” l’ho messa a fuoco in particolare cercando gli approfondimenti su questi temi forniti da due fonti alle quali ricorro abitualmente che sono le TED Talks e i notiziari del Brookings Institute. Si tratta di due istituzioni non for profit profondamente diverse (la prima centrata sulla comunicazione, la seconda sulla raccolta sistematica di dati, ricerche e commentari politici non partisan) che però hanno in comune una inusuale volontà e capacità di promuovere idee pragmatiche e innovative su come risolvere i problemi più annosi della società.
Entrambi questi canali di informazione hanno dedicato, specialmente dalla emergenza del Covid 19 in poi, uno spazio straordinario a questi temi e nella abbondanza e pluralità di contributi, la cosa che più mi ha colpito è stata la percentuale di esperti prestigiosi di colore. Grosso modo: su cinque contributi, quattro sono di studiosi e attivisti neri. Si tratta di persone giovani, sui trent’anni, che quasi sempre hanno frequentato università prestigiose e non di rado insegnano e dirigono centri di “African-American-Studies” in altre università altrettanto prestigiose e in ogni caso svolgono ricerche sul campo sui problemi dei quartieri in crisi, del razzismo strutturale, delle diseguaglianze e discriminazioni che minano la democrazia americana di cui si pongono come combattivi fautori. Non pochi di loro lavorano come “mediatori” dei conflitti che sorgono fra polizia e comunità locali e come esperti e consulenti sui problemi della equità e giustizia sociale. Le conferenze (TED talks) di alcuni di loro raggiungono 6 milioni e più di “views”, il che da una idea di quanto fondamentali e incisive – direi prive di concorrenza – siano diventate queste forme di comunicazione.
Quando nel 2016 sono stata ospite al Program on Negotiation della Harvard Law School, ho avuto occasione di parlare con alcuni degli insegnanti di Obama e di ricostruire in che modo questa istituzione ha funzionato come predellino di lancio per la sua futura carriera politica. Ha contato moltissimo che il precedente lavoro come organizzatore di comunità a Chicago sia stato valutato positivamente ai fini delle borse di studio e che le sue singolarità siano state premiate facendolo assurgere a primo direttore nero della Harvard Law Review, la prestigiosa rivista gestita dagli studenti della scuola di Legge. Da cui articoli sul New York Times, copertine di Journal prestigiosi e la proposta di scrivere la propria autobiografia. Guardando e ascoltando questi giovani che parlavano con cognizione di causa sia scientifica che auto-biografica di razzismo strutturale, mi sono resa conto che in questi anni, dalla elezione di Obama in poi (2009), questo meccanismo di formazione di una nuova classe dirigente espressione degli strati sociali più marginalizzati, è andata avanti alla grande, senza che molti di noi, accecati e spaventati da Trump, ce ne rendessimo pienamente conto. Più precisamente: un nuovo tipo di formazione per una nuova classe dirigente. Per tutti loro, il rapporto fra riflessione e accumulo di conoscenze e l’attivismo sul campo risultano assolutamente centrali. In altre parole sembra proprio che si sia verificata quella “moltiplicazione degli Obama” da lui stesso auspicata ai tempi della sua prima intervista al NY Times. Un cambiamento del genere, quando si incrocia con l’emergenza Covid e il BLM, diventa una sfaccettatura di un possibile cambiamento sistemico di cui questi “change agents”, questi veri e propri “intellettuali organici” gramsciani si dimostrano perfettamente consapevoli.
In questa sede mi propongo di illustrare questo cambiamento sistemico in atto attraverso le testimonianze provenienti da tre fonti: le riflessioni di Opal Tometi, una delle tre donne nere che sette anni fa hanno inventato e lanciato l’hashtag “Black Lives Matter”, quelle dei membri del consiglio comunale di Minneapolis che hanno proposto lo scioglimento del corpo di polizia locale, e l’input di un paio di nuovi intellettuali organici che da tempo si occupa di come instaurare dialogo e collaborazione fra forze di polizia e abitanti delle comunità più disagiate.
Le proteste seguite alla uccisione di George Floyd hanno raggiunto immediatamente una estensione e una drammaticità mai viste nei cinquant’anni precedenti. In una intervista sul New Yorker del 3 giugno 2020, Opal Tometi si sofferma sulle differenze fra questo movimento e quelli precedenti. “Queste proteste sono differenti perché sono segnate da un periodo che è stato profondamente personale per milioni di americani e di residenti degli Usa, che li ha resi più emozionalmente attenti e sensibili agli accadimenti.” Un piccolo elenco: la percentuale di decessi per Covid 19 nella comunità nera dalle 2 alle tre volte superiori a quelli dei bianchi; l’aumento della disoccupazione senza le risorse economiche per farvi fronte, il pericolo di rimanere senza luce, gas e senza un tetto; la consapevolezza di svolgere una serie di occupazioni assolutamente essenziali (riconosciute come tali unanimemente durante l’emergenza sanitaria) assurdamente sotto-pagate. Dentro questa catastrofe, da un lato entrano in circolazione una valanga di dati, di statistiche, di ricerche, di testimonianze (grazie alla “moltiplicazione degli Obama”) che dimostrano l’uso distorto del denaro pubblico a tutti i livelli e che la “colpa” non è della comunità nera (come il potere dominante tenta di far credere), dall’altra: “Le persone che normalmente erano assillate dal lavoro, adesso hanno tempo di andare a una manifestazione, hanno tempo di riflettere sui motivi del loro disagio, della loro emarginazione. Cresce la consapevolezza che tutto questo è profondamente ingiusto, e che adesso ho la possibilità di mettere i miei problemi al centro della scena.” Non è dunque solo una questione di quantità di rivendicazioni e di volume di mobilitazione. “A me pare – continua Opal Tometi – che quello a cui stiamo assistendo è prima di tutto un aprirsi della immaginazione, dove le persone stanno incominciando a pensare in modo più circostanziato, città per città, quartiere per quartiere, a quali possono essere le soluzioni. Abbiamo le nostre soluzioni.” Nessuno può più dire non ci sono i soldi. “Sappiano esattamente quanti soldi sono stanziati, città per città, nelle forze e attività di polizia e di incarcerazione, e chiediamo che la stragrande maggioranza di questo malloppo venga distolto dalla polizia per essere impiegato in iniziative di riqualificazione della vita urbana delle comunità nere.”
La seconda “scoperta” nel corso di questa ricerca è che lo slogan “Defund Police” (De-finanziare la polizia) divenuto senza alcun dubbio identificativo della attuale svolta del BLM, è l’espressione della emersione nelle comunità nere di un americanismo radicale da manuale. Praticamente oggi i neri del BLM si pongono e si propongono come gli unici veri americani. Infatti il leitmotif che ritroviamo ovunque può essere riassunto nei seguenti punti: 1. l’86% del finanziamento della polizia proviene dalle tasse locali; 2. nonostante che questo finanziamento sia cresciuto in questi ultimi anni fino a coprire non di rado un quarto del bilancio municipale, il senso di sicurezza delle comunità nere è andato drammaticamente peggiorando; 3. questo uso dei “nostri tax-dollars” non riflette le priorità dei “Black tax payers” e delle loro comunità. Priorità che invece riguardano i livelli di occupazione, il funzionamento delle scuole, l’accesso alle cure mediche; 4) in quanto “tax payers” e sostenitrici dei poteri del governo locale, le comunità nere esigono di aver voce in capitolo sull’impiego dei loro soldi.
La quantità di dati, di interesse e di tempo che sta prendendo la discussione su quanti “nostri soldi” le singole municipalità impiegano per la polizia e su come differentemente potrebbero essere utilizzati, e anche su quali impedimenti legislativi e burocratici un tale programma deve prepararsi ad affrontare è decisamente un salto di qualità rispetto le idealità più generali del movimento dei diritti civili e si riflette sulle modalità di leadership: da pochi grandi leader a livello nazionale a una molteplicità di leader locali, dalla retorica tipica dei sermoni pastorali, alle doti di organizzatori di comunità alla Saul Alinsky. Si potrebbe chiamare “democrazia coi piedi a terra” e Tocqueville vi scriverebbe un capitolo aggiuntivo del suo libro.
Un aspetto complementare di questo salto di qualità sono i “principi ispiratori” posti alla base di questa rete di movimenti e organizzazioni, declinati in termini di rispetto e valorizzazione delle diversità, globalismo, empatia, giustizia restaurativa, intergenerazionalità e così via. L’idea che le rivendicazioni debbono discendere dalla costruzione congiunta di una “vision” di società desiderabile, non era finora così diffusa nemmeno nella società americana.
Il cambiamento di ottica, dal muoversi nel quadro dell’esistente, al cambiare questo quadro, è epitomizzato proprio dal caso di Minneapolis. Infatti sia nei discorsi dei consiglieri comunali che hanno proposto la mozione di scioglimento del corpo di polizia da sostituire con un “Nuovo Dipartimento di Sicurezza di Comunità e Prevenzione della Violenza”, che nei commenti a livello nazionale, viene messo in luce che “decenni di interventi di riforma hanno dimostrato che il Dipartimento di polizia di Minneapolis non è riformabile e non sarà mai responsabile delle sue azioni.”
Philip V. McHarris and Thenjiwe McHarris, scrivono sul New York Times: “La moltiplicazione dei corsi di formazione, l’assunzione di agenti di diverse etnie e neppure il licenziamento di singoli agenti sono in grado di mettere fine alla brutalità della polizia. Guardate il Dipartimento di polizia di Minneapolis, che è considerato un modello di riforma progressista. Questo Dipartimento offre servizi di “giustizia procedurale”, basata sull’ ascolto delle parti e la ricerca di soluzioni condivise, training contro i bias impliciti, corsi di mindfulness e de- escalation dei confltti. Prevede la presenza di poliziotti di comunità, possibilmente della stessa etnia degli abitanti dei quartieri in cui operano, vieta ogni approccio “militaresco”, fa ricorso a videocamere per monitorare il comportamento degli agenti e identificare quelli problematici, offre corsi su come intervenire in casi di persone con problemi mentali ed è disponibile ad iniziative di “riconciliazione” con le popolazioni delle comunità di colore.(..) E’ l’intero sistema di giustizia criminale che dà agli agenti di polizia il potere e l’opportunità di molestare e uccidere in modo sistematico. La soluzione per porre fine alla violenza della polizia e garantire un Paese più sicuro va trovata nella riduzione del potere della polizia e dei suoi contatti con la gente. Possiamo farlo reinvestendo i 100 miliardi di dollari spesi a livello nazionale per sostenere la polizia in programmi alternativi, come hanno chiesto le persone scese in piazza a Minneapolis.”
A questo elenco aggiungo che l’attuale capo della polizia di Minneapolis si chiama Medaria Arradondo, ed è un nero. Aggiungo anche che decisioni analoghe di drastica riduzione dei poteri della polizia sono state prese in questi anni, sotto l’onda delle proteste, in altre città americane e che in ogni caso sono richiesti oltre al voto del consiglio comunale una serie di altri passaggi. Le tre principali barriere ad un processo di “sicurezza pubblica trasformativa” ha dichiarato un membro del consiglio comunale di MSP, sono: la riforma dello statuto, l’opposizione del sindacato degli agenti di polizia, e l’approvazione della assemblea legislativa a livello statale. Una strada irta di ostacoli che il movimento mi pare attrezzato e maturo ad affrontare.
Come ultimo punto, per capire meglio, che aria tira, mi pare utile uno sguardo dall’interno del funzionamento del corpo di polizia. Faccio riferimento prevalentemente a due fonti, una discussione fra quattro ospiti organizzata dagli editor delle TED talks il 3 giugno 2020, e un articolo del 11 giugno firmato da quattro ricercatori del Metropolitan Policy Program al Brookings Institute. In entrambi i casi si tratta di giovani che oltre a fare ricerca scientifica, lavorano come consulenti delle istituzioni e forze di polizia locali per individuare ed eliminare le radici della violenza e razzismo strutturale e promuovere il dialogo e la cooperazione fra i vari soggetti della comunità. Dei primi quattro quello che più mi interessa in questo caso è il Dr. Phillip Atiba Goff, che lavora direttamente con i Dipartimenti di polizia ed è co-fondatore del Center for Policing Equity (CPE), un centro di ricerca universitario che a quanto pare possiede l’osservatorio dei comportamenti della polizia più ricco e sistematico degli Usa. Il centro opera a partire dalla definizione di “razzismo” come una serie di dinamiche comportamentali misurabili e cambiabili e non come un difetto di carattere. Goff ha studiato a Harvard e Stanford e, fra le altre cose, ha fatto parte della Task force di Obama sulla Polizia del 21mo secolo. E’ interessante che sulla base di tutti questi titoli, ricerche ed esperienze professionali, la diagnosi che egli propone non differisca da quelle che ho sintetizzato sopra. Non c’è altra via che sottrarre fondi dai bilanci della polizia per investirli direttamente in risorse pubbliche per le comunità, in modo tale che lapopolazione possa fare a meno della polizia per la propria sicurezza. “Quello che stiamo vedendo – sostiene Goff – è la presentazione del conto scaduto per i debiti non pagati che gli Stati Uniti devono ai loro residenti neri.”
Nell’articolo “To add value to Black communities, we must defund the police and prison systems“, gli autori, nel sintetizzare i risultati delle ricerche sul funzionamento della polizia, aggiungono una serie di informazioni tese a dimostrare che ormai il fenomeno è talmente sotto le lenti della pubblica opinione, e così riccamente documentato, che gli stessi dirigenti e agenti della polizia non cercano neppure di negarlo. Ecco alcuni stralci:
“Nel corso del tempo, gli agenti di polizia e di correzione sono stati gravati di una serie di responsabilità – dal monitoraggio delle scuole e dei campus alla risposta alle crisi di salute mentale – in cui gli agenti non hanno né formazione né esperienza. Una drastica ristrutturazione delle responsabilità della polizia aprirebbe posti di lavoro che non bloccano la mobilità economica dei residenti neri. Le comunità nere hanno bisogno di un maggior numero di posti di lavoro nel settore pubblico che offrano benefici simili, ma che offrano un miglior rendimento per le nostre tasse.(..) L’infrastruttura per assorbire nuovi posti di lavoro nelle economie locali c’è già. Ci sono consulenti e programmi per le vittime di violenza sessuale, servizi per le persone senza fissa dimora o che soffrono di dipendenze e dipartimenti che rispondono agli abusi domestici. Questi programmi esistono, ma non sono adeguatamente finanziati. Ridurre la carcerazione e il budget gonfiato del dipartimento di polizia ci permetterà di sostenere questi servizi e di alleviare l’onere che grava sulla polizia e sulle carceri.”
Esiste dunque fra le forze di polizia la speranza che, un alleggerimenti dei loro compiti permetta di migliorare le statistiche disastrose sul loro operato in tema di crimini violenti: circa il 38% degli omicidi, il 66% degli stupri, il 70% delle rapine e il 47% delle aggressioni aggravate non risolti ogni anno.
Come sostiene Opal Tometi:
” E’ come ricevere uno schiaffo in faccia quando il governo locale vede cosa succede nei loro distretti di polizia e dintorni e reagisce dicendo: ‘ Dobbiamo dare loro più soldi perché chiaramente al momento non funziona! ‘ Se uno sul lavoro si dimostra non in grado di farvi fronte con perfino degli esiti letali, va licenziato. Quello che noi abbiamo capito è che non ha senso continuare su questa strada.”
Questo mi pare il quadro complessivo oggi, un quadro in cui è in gioco la riscoperta e rilancio della democrazia americana per opera “degli ultimi” che si sono costruiti una intellighenzia di prim’ordine, in grado di esercitare una influenza e forse una egemonia su una ampia parte della società. Cosa significa “controllo della comunità” sui “nostri tax dollars” è tutto da decidere, ma di questo si sta discutendo, mentre Trump, che di tutto ciò non capisce niente, si allontana con tutti i suoi dollari (non tassati) e la coda fra le gambe. E su questo si deciderà dentro il partito democratico, da qui a novembre.