Un ebook del Cadtm esamina la geografia del debito nei paesi del mondo, presenta i numeri del macigno finanziario che pesa sulle economie del Nord e del Sud, tra tutela delle banche e politiche del Fmi. E propone le possibilità di liberarsene
Per facilitare la comprensione dei risvolti globali della crisi, il CADTM (http://cadtm.org/) – Comitato per la cancellazione del debito del Terzo Mondo – ha pubblicato un breve e-book (http://cadtm.org/2012-World-debt-figures), intitolato World Debt Figures 2012. In una trentina di pagine sono raccolti i dati sull’evoluzione dei debiti sovrani, pubblici e privati, dagli anni ’80 ad oggi: una sorta di bollettino statistico, che aiuta a dare uno “sguardo critico all’economia globale e ai meccanismi di dominio” in atto e ad inquadrare meglio le diverse crisi regionali. Nell’introduzione gli autori – Damien Millet (http://fr.wikipedia.org/wiki/Damien_Millet), Eric Toussaint (http://en.wikipedia.org/wiki/Eric_Toussaint), e Daniel Munevar – sostengono che “le disuguaglianze sono lampanti, e continuano a svilupparsi”: proprio dalle diseguaglianze prende avvio il volume, illustrando non solo il divario nord-sud, ma anche quello interno ai paesi occidentali, dove negli ultimi trent’anni la quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco della popolazione è aumentata, come testimoniato dai dati raccolti nel World Top Incomes Database (http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/). Paragonando i dati sui redditi più elevati a quelli sulla fame e sulla povertà, gli autori mostrano come un prelievo dello 0,2% sui patrimoni “milionari” permetterebbe di far fronte ai bisogni essenziali della popolazione mondiale.
Una sezione a parte è dedicata ai “debiti odiosi” (http://unctad.org/en/docs/osgdp20074_en.pdf), categoria entrata nel dibattito italiano grazie al saggio di François Chesnais su “Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza” (www.deriveapprodi.org/2011/11/diritto-allinsolvenza/) e nella quale non è difficile includere i quasi 150 miliardi di euro (su un debito pubblico di 340) dovuti alla Troika dalla Grecia.
I debiti odiosi hanno spesso segnato l’avvio di un’esplosione che dal 1980 a oggi ha portato l’indebitamento estero dei paesi in via di sviluppo a moltiplicarsi otto volte. Nel 2010 la Banca Mondiale misurava in 4.076 miliardi di dollari lo stock di debito estero accumulato da questi paesi – per un costo annuo di 583 miliardi di spesa per interessi. Di questo debito, 1647 miliardi (il 40% circa) costituiscono debito pubblico, e sono dovuti per il 46% a compagnie private, per il 33% ad Istituzioni Internazionali, e per il restante 21% a singoli stati. Guardando alla ripartizione geografica, quasi il 30% del debito pubblico estero è detenuto dai paesi dell’America Latina.
Se si osservano i flussi finanziari complessivi, si vede come abbiano comportato un trasferimento netto dai paesi debitori a quelli creditori pari a cinque volte il Piano Marshall: se gli ODA (www.oecd.org/dac/aidstatistics/officialdevelopmentassistancedefinitionandcoverage.htm) (130 miliardi di dollari nel 2010) vengono “bilanciati” dai servizi sul debito pubblico detenuti all’estero (180 miliardi), le rimesse dei migranti (325 miliardi) non compensano i 647 miliardi che “escono” ogni anno sotto forma di profitti “rimpatriati” dalle multinazionali.
Includendo nell’analisi le riserve di valuta straniera (sezione 4), si scopre però come molti paesi in via di sviluppo siano oramai creditori netti dell’occidente: le quote detenute da Cina (3254 miliardi a dicembre 2011), ma anche Russia (497), Brasile (352) e India (299), “compensano” il debito pubblico di questi paesi detenuto all’estero. E sarebbero da considerare anche i 2380 miliardi depositati dai cittadini abbienti di questi paesi nelle banche del “nord”, a fronte di soli 200 miliardi di prestiti erogati da queste stesse banche verso il sud del mondo.
Sono le sofferenze delle banche – direttamente, richiedendo interventi pubblici (www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/20/salvataggio-di-stato-a-mps-draghi-stronca-scorciatoie-di-monti-e-grilli/452198/) , e indirettamente, per gli effetti che hanno sull’economia reale – a minare le finanze pubbliche: tra impegni diretti e garanzie sui depositi, il costo degli interventi dei governi europei viene stimato in oltre 1500 miliardi di euro – di cui 500 per il solo Regno Unito, e 364 per la Germania. Se a questo si somma la progressiva detassazione – anch’essa avviata negli anni ’80 – dei redditi più elevati, dei profitti e delle rendite, si colgono le ragioni più profonde delle attuali crisi dei PIIGS (http://it.wikipedia.org/wiki/PIGS). Fenomeni noti e più volte discussi su questo stesso sito, ma che stentano a imporsi nel dibattito pubblico.
Utile a restituire le giuste proporzioni è il confronto tra la spesa sociale e quella per interessi sul debito. In Argentina e Brasile (entrambi nella lista dei “debitori odiosi”), oltre il 40% del budget governativo è ancora assorbito dagli oneri sul debito; ma anche in Spagna, se la spesa per interessi è aumentata da 16 a 29 miliardi di euro (9,3% dell’intero budget) tra il 2008 e il 2012, la quota destinata all’istruzione è scesa nello stesso periodo da 11 a 2 miliardi (0,7% del budget). Una misura di come il trasferimento in atto avvenga non solo lungo l’asse Nord-Sud, ma anche tra élite e lavoratori dei singoli Paesi, anche alle nostre latitudini.
In materia di restituzione, merita attenzione particolare l’Heavily Indebted Poor Countries (www.imf.org/external/np/exr/facts/hipc.htm) (HIPC) program: i dati mostrano come l’iniziativa, lanciata dalla Banca Mondiale e FMI nel 1996, sia servita non ad aiutare questi paesi, ma a garantire il massimo beneficio ai prestatori, come evidenziato persino dalle Nazioni Unite (http://ap.ohchr.org/documents/dpage_e.aspx?si=A/HRC/RES/20/10). Questi si sono difatti impegnati ad “abbonare” ai Paesi più poveri solo la parte di debito di fatto inesigibile: scongiurando il rischio di un default integrale, il programma ha assicurato così il pagamento continuo e regolare degli interessi sul massimo ammontare “sostenibile”. In termini “finanziari”, l’HIPC ha di fatto aumentato il rendimento degli “aiuti” riducendone la rischiosità, imponendo per di più ai paesi “beneficiari” le (neo)classiche “riforme strutturali” care all’FMI. Riforme che hanno aggravato la dipendenza economica di questi paesi, come suggerisce l’aumento del rapporto debito/export – che per l’Africa (America Latina) è costituito ancora per il 60% (40%) di materie prime.
Il pregio di questo breve e-book è dunque di ricondurre ad unità, riassumere efficacemente e rendere divulgabili questi dati: una volta rivelate, come scrivono gli autori, “le cifre parlano da sole, e illustrano quanto necessario e urgente sia cambiare radicalmente il sistema.”