Il decreto Dignità ha un segno opposto al “Jobs act” anche se non introduce che correttivi minimi. Le critiche di Confindustria però non hanno ragione se non politica. E sui contratti a termine, servono soluzioni per limitare il turn-over.
Con il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, battezzato “decreto dignità”, il nuovo governo interviene con urgenza in materia di lavoro, limitando l’utilizzo dei contratti a termine (compresa la somministrazione a termine) e aumentando le sanzioni contro il licenziamento illegittimo.
In merito al primo punto, si reintroduce, solo per i contratti superiori a 12 mesi o nel caso di rinnovi, l’obbligo di giustificare l’assunzione a termine per “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori” oppure per “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Inoltre, la durata massima del contratto a termine con lo stesso lavoratore si abbassa da 36 a 24 mesi. Tali novità non valgono per le attività stagionali, né per le start up innovative che continuano a godere di maggiori margini di operatività.
La novità ha sollevato polemiche a seguito dei dati Inps, pubblicati nella relazione tecnica al decreto, relativi ad un possibile impatto negativo sull’occupazione per 8 mila lavoratori (0,4% di tutti i lavoratori a termine) a cui forse non verrà rinnovato il contratto arrivati alla soglia dei 24 mesi. Ma le critiche sono arrivate anche da parte di Confindustria per l’incertezza applicativa derivante dalla reintroduzione della causali e per il conseguente rischio di contenzioso. Le imprese chiedono sempre certezza e riduzione del contenzioso, che significa, in altri termini, libertà di gestire le risorse umane senza vincoli. Sarebbe una richiesta legittima se le imprese non abusassero di questa libertà, sulla pelle del lavoratori, costringendo il legislatore a compiere la scelta tra libertà e dignità.
L’obiettivo dichiarato del decreto non è né quello di compiacere Confindustria, né quello di aumentare l’occupazione. Il titolo del decreto è “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, quindi è sul piano della dignità e della qualità del lavoro che va giudicato.
In materia di contratti a termine, la novità è volta a ridurre le ipotesi di abuso nel ricorso al contratto a termine, cioè l’utilizzo oltre le effettive esigenze temporanee. Abuso reso possibile in seguito alla liberalizzazione intervenuta col Jobs act.
L’altra faccia della medaglia della liberalizzazione è la precarietà: è diventato sempre più difficile per i lavoratori affrancarsene e si è sempre più allontanata l’agognata stabilità. Nell’ultimo anno (maggio 2017-maggio 2018) addirittura il 95%, delle nuove assunzioni è a termine, mentre solo l’1% è a tempo indeterminato (dati ministero del Lavoro). Questa trappola della precarietà coinvolge 2 milioni di lavoratori a termine ogni anno, secondo i dati del ministero del Lavoro.
Reintroducendo le causali, oltre i 12 mesi, si rafforza la posizione contrattuale del lavoratore, che potrà attivare un contenzioso nel caso in cui si renda conto che l’azienda avrebbe potuto assumerlo stabilmente. D’altra parte, le imprese godono sempre di 12 mesi di assunzione a termine, senza causali, quindi hanno comunque tutto il tempo di ponderare le proprie scelte. Sulla mancanza di un regime transitorio, in merito al destino dei contratti che superano i 24 mesi, si potrà certamente trovare una soluzione in sede di conversione, magari con incentivi mirati alle stabilizzazioni.
Venendo alle novità sul licenziamento, sul regime sanzionatorio nell’area del contratto a tutele crescenti, si è provveduto ad alzare l’ammontare minimo dell’indennizzo a favore del lavoratore da 4 a 6 mensilità e quello massimo da 24 a 36 mensilità, rendendo più oneroso per le imprese il cd. “costo di separazione” in caso di licenziamento ingiustificato, quindi illegittimo. Anche qui si tratta di un provvedimento che scoraggia gli abusi. Nulla hanno da temere, anche in questo caso, le aziende che licenziano con giusta causa o giustificato motivo.
Il segnale che viene dato con il decreto dignità è quindi opposto a quello che diede Renzi col “Jobs act”: allora si strizzò l’occhio alle imprese, con la liberalizzazione dei contratti a termine e il licenziamento facile. Il decreto dignità, invece, introduce interventi significativi, ancorché minimi, per ridurre gli abusi, sia in materia di contratti a termine che di licenziamento illegittimo.
Tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga ed insidiosa. Innanzitutto, sempre in materia di contratti a termine, le novità introdotte dovrebbero andare di pari passo con soluzioni per limitare, oltre un certo periodo di tempo, il turn-over, altrimenti allo scadere dei 12-24 mesi, le imprese si limiterebbero, invece di stabilizzare i lavoratori a termine, a sostituirli con nuovi lavoratori a termine.
Inoltre, il precariato non è solo quello dei lavoratori a termine, quindi se il governo pensa di ri-liberalizzare i voucher non farebbe altro che spostare i lavoratori da una tipologia contrattuale a termine, ma più protetta, ad una decisamente peggiore, che ha rappresentato l’emblema della mercificazione dei rapporti di lavoro e della lesione della dignità dei lavoratori.
A tale intervento urgente ne dovranno quindi seguire altri, come quelli già in discussione, con nuovi incentivi alla stabilizzazione e un taglio del cuneo fiscale, almeno per alcuni settori produttivi, cercando di aiutare l’occupazione di qualità e, con essa, lo sviluppo delle aziende. Il rispetto della dignità dei lavoratori è infatti anche rispetto della dignità delle imprese, di quelle che operano correttamente nel mercato, di quelle che sanno che la qualità dell’impresa si fonda sulla qualità dell’occupazione. Se si parla di dignità dei lavoratori, infine, non va trascurata la dignità di chi lavora in nero, di chi lavora in ambiente dannoso per la sicurezza e la salute, di chi lavora sottoposto al controllo a distanza, di chi lavora con la minaccia di essere demansionato, col timore di iscriversi al sindacato o col timore di avere figli.
Anche se si è partiti col piede giusto, c’è ancora molto da camminare per ridare dignità ai lavoratori.