L’azione collettiva: come uno strumento nato per difendere i deboli si trasforma a favore dei forti. A partire dai responsabili dei crack finanziari
Finalmente sembra giunta al termine la saga sulla class action dopo molti colpi di scena; la nuova legge che la disciplina entrerà in vigore a partire dall’ 1 luglio 2009. Salvo ulteriori colpi di scena finali: poiché in Italia nulla va dato per scontato e questo breve excursus ne sarà una prova.
Iniziamo col dare una definizione di azione collettiva: è un’azione legale introdotta col fine di riequilibrare la posizione di debolezza del consumatore ogniqualvolta egli patisca la lesione di un diritto di scarso valore economico tale da indurlo a rinunciare alla tutela in giudizio poiché antieconomica rispetto al danno subito. Tale azione, che è conosciuta come class action, segue iter giuridici differenti a seconda dell’ordinamento che vige in uno Stato; le principali discipline adottate nei vari paesi sono due: quella americana e quella europea. Secondo la prima ogni danneggiato è legittimato ad agire e il giudice è chiamato a decidere in primo luogo sulla sua ammissibilità e successivamente sul merito; inoltre per tutti i potenziali interessati, qualora decidano di avvantaggiarsi dell’azione collettiva, è sufficiente che rimangano inerti. Nella Comunità Europea, invece, la direttiva n. 98/27/CE del Parlamento Europeo ha stabilito che sono autorizzati ad agire in giudizio per conto di un gruppo di persone danneggiate dalla condotta del convenuto, solo gli enti legittimati, quali ad esempio associazioni dei consumatori o autorità pubbliche indipendenti. Naturalmente in quanto direttiva ha stabilito delle linee generali, ogni paese membro dell’UE ha poi adottato discipline differenti, anche per conformarla alle peculiarità del proprio ordinamento giuridico.
Nel Belpaese invece, non sapendo a quale ordinamento rifarsi, o meglio, non sapendo come tutelare contemporaneamente gli interessi delle imprese e dei consumatori (quando gli interessi delle prime si può dire si trovano già in una “botte di ferro”) si è optato dapprima per una amalgama fra le differenti discipline, per poi virare su una normativa che paradossalmente tutela le imprese.
Ma andiamo con ordine e ripercorriamo l’odissea dell’azione collettiva italiana sin dall’inizio.
Il primo tentativo del Parlamento di tutelare collettivamente i consumatori avvenne durante la XIV° Legislatura (maggio 2001 – aprile 2006) con un progetto di legge ad iniziativa parlamentare e a firma dell’On. Bonito (DS-Ulivo) e altri. Tale progetto non si prefiggeva di istituire la figura giuridica delle azioni collettive, ma si limitava a modificare un articolo di una legge, la 281/1998 “Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, per prevedere “ […] il risarcimento dei danni e la restituzione di somme dovute direttamente ai singoli consumatori e utenti interessati, in conseguenza di atti illeciti plurioffensivi […] che ledono i diritti di una pluralità di consumatori e di utenti”. Nonostante l’impalpabilità dell’intervento legislativo e la sua approvazione pressoché all’unanimità da parte della Camera dei deputati, l’iter parlamentare si arenò al Senato, dove non fu nemmeno avviato l’esame da parte delle commissioni competenti di Giustizia e Industria-Commercio-Turismo.
Il secondo tentativo è datato luglio 2006 con il disegno di legge dell’allora ministro dello Sviluppo economico Bersani, in concerto con gli ex ministri Mastella (Giustizia) e Padoa Schioppa (Economia e finanze). Un anno e mezzo più tardi – dicembre 2007 – buona parte della disciplina prevista da tale disegno di legge venne ripresa all’interno della Legge finanziaria per il 2008 che ha introdotto nel Codice del consumo il nuovo art. 140-bis, rubricato “Azione collettiva risarcitoria”.
Quest’articolo conferiva la legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori e degli utenti. L’iter giudiziario poi si esplicava abbastanza specularmente a quello consigliato dall’UE con due importanti peculiarità: il fatto che solo gli aderenti all’azione collettiva avessero diritto alle somme risarcitorie del convenuto – era comunque fatta salva l’azione individuale di coloro che non avevano aderito all’azione collettiva o non erano intervenuti nel giudizio promosso – e la possibilità dell’impresa convenuta, entro 60 giorni, di proporre una somma da pagare tenendo conto dell’ammontare minimo stabilito dal giudice. Scaduto il termine (o per mancata proposta o per mancata accettazione della stessa), il presidente del tribunale competente doveva costituire un’unica camera di conciliazione per la determinazione delle somme da corrispondere o da restituire.
Questo primo provvedimento fu oggetto di molte critiche da parte sia di Confindustria – le imprese ne risultavano per forza di cose danneggiate… in un’ottica del tutto italiana in cui gli interessi delle imprese (o dell’imprenditore?) debbano necessariamente prevalere rispetto alla necessità di maggior trasparenza dei comportamenti, regolamentazione del mercato e tutela dei diritti degli stakeholders – che di molte associazioni dei consumatori. Queste ultime in particolare sottolineavano i seguenti limiti:
- la legittimazione ad agire non includeva i comitati, che costituiscono l’espressione più democratica ed efficace delle istanze dei consumatori, e richiedeva l’iscrizione dei soggetti a un registro ministeriale, limitando il diritto alla difesa;
- le c.d. small claims e altre azioni risarcitorie sono state considerate situazioni equipollenti. “Le small claims” – affermava al tempo Alpa , Presidente del Consiglio nazionale forense– “richiedono una disciplina a sé, un filtro molto rigido per evitare frivole rivendicazioni, o manovre ricattatorie, e pure evitare che modestissimi danni – pur moltiplicati per migliaia di persone – si convertano nella distruzione di servizi o apparati produttivi utili per il paese e rilevanti per il mercato”;
- continuava Alpa: “la gestione dei rimborsi individuali tramite una camera di conciliazione successiva alla decisione di accertamento e condanna della responsabilità dell’impresa implica il rovesciamento della logica giuridica processuale, perché la conciliazione serve a prevenire le cause, altrimenti trattasi di una ‘camera di transazione’ “.Quindi, pur con più di un dubbio nonché lacuna, ai sensi dell’art. 2, 447° comma della predetta legge Finanziaria, le disposizioni in parola sarebbero dovute diventare applicabili 180 giorni dopo l’entrata in vigore della finanziari e quindi a partire dal 30 giugno 2008; senonché il governo Berlusconi decise, con l’ art.36 del d.l. n.112 del 25 giugno 2008, di far slittare l’appuntamento al gennaio 2009 per avere il tempo necessario a modificarne l’impianto normativo.
Ed eccoci arrivati alla terza e ultima parte della nostra saga: le modifiche apportate dal governo Berlusconi attraverso il decreto “Milleproroghe” – approvato a inizio dicembre dal Consiglio dei ministri. In esso, fra le altre decisioni, è prevista la sostituzione dell’art. 140-bis del Codice di consumo con quanto sancito nell’art. 30-bis del decreto stesso. Innanzitutto è doveroso puntualizzare che il testo dell’emendamento ancora non è ufficialmente disponibile anche se ma L’Unione nazionale consumatori è riuscita a procurarselo e a pubblicarlo di recente. Ad ogni modo non risiedono dubbi circa la sua esistenza dato che lo stesso ministero dello Sviluppo economico con un comunicato stampa del 23 dicembre ha affermato che il governo aveva depositato quella stessa mattina un emendamento, in tema di class action, al disegno di legge Sviluppo in discussione al Senato. Il motivo di tanta segretezza da parte del governo è sicuramente riconducibile alla necessità di evitare il clamore mediatico che ha accompagnato l’argomento negli ultimi mesi.
Una delle principali modifiche apportate riguarda la legittimazione ad agire, la quale viene consentita a ciascun individuo (come nell’ordinamento statunitense) e non più solamente agli enti collettivi. Se ciò da una parte garantirà una maggior tutela verso interessi collettivi peculiari, che spesso non vengono protetti dalle associazioni di consumatori/utenti (a differenza dei comitati!) poiché sovrastati da interessi più diffusi, dall’altra permetterà alle imprese di accordarsi più facilmente e in maniera non sempre trasparente con il singolo individuo, la cui forza “lobbistica” è perlomeno discutibile.
Un rapido confronto con la disciplina statunitense evidenzia come sia stato ripreso l’anello, forse, più debole di quella normativa, ossia la legittimazione ad agire del singolo individuo, la quale comporta, oltre a quanto precedentemente detto, anche la proliferazione di azioni collettive spesso pretestuose e infondate; al contrario, è stata ignorata la parte migliore della disciplina americana e cioè il “silenzio-assenso” dei potenziali aderenti all’azione. Infatti la futura normativa italiana prevede un termine per le adesioni, assegnato dal giudice e successivo alla pubblicità – il cui onere peraltro spetterà al richiedente e questa diverrà una condizione di procedibilità! – e inoltre sancisce che non saranno più proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza di questo termine. In tutti gli altri paesi europei, al contrario, si è optato, in modi differenti, per far valere la sentenza anche per successive domande (singole o di gruppo)…
È evidente che queste nuove norme da una parte impediranno – come afferma Paolo Fiorio, Responsabile dell’Osservatorio Credito & Risparmio di MC – “[…] una pluralità di azioni per il medesimo fatto, con l’effetto di consentire la proposizione di azioni ‘gialle’, strumentali e comode all’impresa che si chiudono con la reiezione della domanda e poche adesioni”, dall’altra precluderanno a molti potenziali danneggiati l’opportunità di essere rimborsati o risarciti.