Le economie informali dei “waste-pickers” attraversano da sempre le nostre società. E tracciano la rotta per una gestione dei rifiuti più efficiente, più sostenibile
Economie popolari e centralizzazione
Informale e criminale non sono due concetti che vanno necessariamente per mano. Nel 2001 la dottoressa Florisbela de Santos, riprendendo concetti introdotti dall’antropologo Keith Hart e dal sociologo Machado da Silva, divise l’attività economica generale in “settore formale”, “settore informale” e “settore informale criminale”. In ciascuno dei tre settori, secondo la de Santos, può essere identificata una classe dominante, una classe media e una classe lavoratrice. Ma in realtà, ciascuno dei tre include un infinito numero di strutture produttive e grandi differenze nelle dinamiche di distribuzione della ricchezza.
Nel settore formale e nel settore informale, indistintamente, possono essere individuati fenomeni virtuosi o potenzialmente virtuosi. E spesso l’informale racchiude modelli economici innovativi e soluzioni fondamentali nel campo dell’amministrazione, della logistica, dell’inclusione sociale e dello sviluppo locale.
È sicuramente il caso delle economie popolari informali che in tutto il mondo, con modalità diverse, raccolgono materiale di scarto per sopravvivere.
Fino agli anni ’60, nei cosiddetti “paesi sviluppati” il modello di gestione dei rifiuti che prevaleva era lo stesso modello che continua a prevalere nel resto del mondo: l’istituzione pubblica garantiva spazzamento e raccolta dei rifiuti indifferenziati, mentre eserciti informali si occupavano di selezionare materie prime seconde per il riciclo. I materiali riciclabili venivano ottenuti porta a porta, nelle strade e nelle discariche e poi rivenduti a centri di raccolta che a loro volta avviavano i materiali alle loro filiere di riferimento.
Negli ultimi decenni l’Europa è stata capofila di un processo di centralizzazione della raccolta differenziata e modernizzazione del settore che ha tolto gradualmente spazio alle economie popolari. Queste ultime sono state espulse dalle discariche che giustamente andavano messe in sicurezza, ma sono stati espulsi anche dalle strade, dove accedere al differenziato diventava sempre più difficile. Ad accelerare l’estinzione delle economie di piccola scala che un tempo caratterizzavano il settore sono sopravvenute anche le dinamiche del mercato, profondamente modificato sia dalla centralizzazione della differenziata che dalla crescente dipendenza dalle oscillazioni internazionali dei prezzi della materia prima seconda.
Il ritorno al labor intensiveMa i nuovi sistemi di raccolta differenziata hanno dimostrato di non essere automaticamente efficaci. Solo con duro sforzo la raccolta differenziata con cassonetti e campane stradale riesce a raggiungere quote del 20% e solo in casi rari arriva al 30%, però con gradi di purezza discutibili. L’epoca delle tecnologie di selezione a valle è inoltre passata di moda perché ha mostrato tutti i suoi limiti produttivi, e da dieci anni a questa parte, lentamente ma inesorabilmente, le amministrazioni locali stanno introducendo la raccolta differenziata porta a porta, ovvero l’unico sistema in grado di differenziare più del 60% dei rifiuti e raggiungere i nuovi traguardi imposti dalle leggi comunitarie e nazionali ma anche e soprattutto dal senso comune di cittadini sempre più intolleranti verso i modelli ambientalmente insostenibili. Il porta a porta è un sistema labor intensive che incrementa in modo significativo le spese di gestione del servizio ma che consente anche, sorpassata una certa scala, di trasformare in attivo il bilancio della gestione dei rifiuti solidi urbani. Non è facile introdurlo non per ragioni tecniche ma per ragioni di governance: gli attori locali spesso hanno interessi consolidati che vanno in conflitto con l’evoluzione del sistema e le aziende di igiene urbana, in particolare, hanno pesantezze di apparato e sistemi di incentivo che le inducono frequentemente a fare opposizione attiva o passiva al porta a porta. Spesso le aziende non riescono a far funzionare il porta a porta se non esternalizzano il servizio.
Se negli anni ’60 e ’70 le economie popolari che garantivano le rotte porta a porta senza nessun incentivo e sovvenzione pubblica fossero state coordinate, organizzate e integrate in programmi istituzionali per la separazione alla fonte, oggi fare il porta a porta sarebbe estremamente più semplice ed economico, e il movente microimprenditoriale dei raccoglitori sarebbe il migliore incentivo alla massimizzazione della differenziata.
Ma in epoca fordista questo tipo di modernizzazione era al di fuori delle possibilità dell’immaginario.
Le nuove traiettorie di modernizzazione di Brasile e IndiaIn America Latina, in Asia e in Africa, le economie popolari informali hanno ancora in mano la differenziata. In alcuni casi lavorano in contesti dove i servizi pubblici si dedicano solo allo spazzamento. In altri casi, come a Città del Messico, le dinamiche dell’informalità compenetrano totalmente il servizio ufficiale di raccolta, costituiscono la sua vera ossatura e ne sono la chiave di funzionamento. Ovunque si è tentato, senza alcun successo, di riprodurre modelli di raccolta uguali a quelli europei di venti o trent’anni fa. Ma il contesto è diverso dal punto di vista delle risorse pubbliche, della governance locale e degli interessi di settore. La traiettoria europea non è esportabile, ma nonostante questo la cooperazione internazionale continua a spendere centinaia di milioni di euro in progetti che non danno risultati. Brasile e India, che in questi anni vivono spinte alla modernizzazione brutali, ospitano un gran numero di esperimenti di segno diverso. In molti contesti locali le economie popolari vengono integrate nei sistemi di gestione ufficiali e accompagnate all’emersione, il sistema costa meno ed è più efficiente, e si arriva in tempi brevi e con relativa facilità a quote di differenziata pari al 20%. A volte l’istituzione pubblica si limita ad assegnare spazi intermedi agli ex operatori informali per consentire loro selezione e stoccaggio e alla produzione di materiale informativo per i cittadini. Pensare alle centinaia di milioni di euro investite a Roma negli ultimi 15 anni per raggiungere lo stesso 20% dovrebbe indurre a una seria riflessione sulla validità di certi modelli.
Se le sperimentazioni indiane e brasiliane riuscissero a includere anche l’organico nel loro sistema di differenziazione, i risultati virtuosi europei sarebbero presto raggiunti, ma in forma incomparabilmente più produttiva e con un forte valore aggiunto sociale.
L’Italia e il Riutilizzo popolareIn Europa e in Italia le economie popolari sono ancora vive, ma si sono riciclate nel Riutilizzo. Nei flussi potenziali ed effettivi dei rifiuti solidi urbani sono presenti grandi volumi di merci riusabili, che quotidianamente vengono pescate nelle cantine e nei cassonetti da un esercito di operatori informali o semi-informali che poi le rivendono nei canali tradizionali dell’usato. Questo esercito trova il suo nucleo storico nel lumpen autoctono ma gonfia costantemente le sue file grazie ai flussi migratori crescenti, composti da migliaia di persone che nonostante l’impossibilità di accesso al mercato del lavoro non si rassegnano a delinquere e privilegiano attività informali ma oneste. L’usato ha una domanda finale di cui non si vedono i confini e che gli operatori non riescono a soddisfare per le inefficienze dell’approvvigionamento informale, caratterizzato da frammentarietà e incostanza dei flussi. Nelle isole ecologiche e nei cassonetti c’è una vera e propria miniera d’oro, che per ignoranza e rigidità ancora non viene selezionata, preparata al riutilizzo e avviata alle filiere di riferimento. Nella sola città di Roma, una stima fortemente per difetto ha dimostrato che ogni anno i cassonetti dell’indifferenziato stradale ospitano almeno 33 milioni di euro di merce. Occhio del Riciclone, nel corso dei suoi studi, ha dimostrato che in Italia esistono modalità efficienti e produttive di gestire sistemi di riutilizzo su scala. La Rete nazionale degli Operatori dell’usato, che rappresenta gli ambulanti dell’usato, e il settore del conto terzi usato, reclamano l’accesso alle merci usate conferite nelle isole ecologiche. Il loro contributo finanzierebbe anelli chiave della logistica della differenziata rendendo più sostenibile l’intero sistema. Ma perché anche l’usato venga considerato una filiera occorre rompere paradigmi, accettare che in questo settore Brasile e India ospitano esperienze di avanguardia da imitare, e riconoscere all’economia popolare il ruolo economico che gli spetta.