Solo una poltica fiscale comune potrebbe ridurre i rischi di insolvenza nei paesi dell’Unione gravati da un debito pubblico elevato
La crisi finanziaria ed economica, iniziata negli Stati Uniti nel 2007, si era poi trasmessa all’Europa, dove nel corso del 2009 essa aveva avuto effetti reali pesanti, anche nei principali paesi come la Germania. Nell’autunno di quell’anno l’uscita dalla recessione e dall’instabilità finanziaria sembrava un fatto acquisito.
Tuttavia, già dal settembre 2008, lungo tempo dopo la costituzione dell’Emu, erano riemersi differenziali significativi fra i tassi di interesse di alcuni paesi periferici e la Germania. In Grecia il differenziale era salito a 2 punti percentuali (p.p.) all’inizio del 2009, scendendo però a poco più di 1 p.p. nella successiva estate. Nell’ottobre di quell’anno il nuovo governo di sinistra aveva notificato all’Eurostat l’esistenza di un deficit pubblico molto più alto di quello comunicato pochi mesi prima dal precedente governo. L’effetto fu una crescita continua del differenziale sui titoli a 10 anni da 1,34 p.p. (subito dopo la comunicazione) a più di 10 p.p. (nel maggio 2010). L’aumento dei differenziali di interesse si trasmetteva ad altri paesi dell’Emu con elevato deficit e/o debito pubblico e si accompagnava a una forte caduta della quotazione dell’euro, il cui cambio con il dollaro era sceso a circa 1,20 nella primavera del 2010, in riduzione da circa 1,60 nell’autunno del 2008 e 1,50 nell’autunno del 2009.
Stretta monetaria e fiscale
Praticamente tutti i paesi europei, inclusa la Germania, hanno reagito a questa situazione con l’adozione di politiche fiscali restrittive e il rafforzamento del Patto di Stabilità e Crescita (Psc), che richiede ora l’adozione di misure più drastiche per ridurre il rapporto fra debito e Pil e implica un controllo ex ante delle politiche di bilancio nazionali. Si è così determinato un contesto generale deflazionistico e l’espansione dell’economia dell’Eurozona è stata soltanto dell’1,7% nel 2010, con una previsione di crescita ancora più bassa per il 2011. La politica monetaria è stata espansiva fino al marzo 2011, con tratti apparentemente simili alla politica della Federal Reserve, e da allora si profila la prospettiva di una strategia restrittiva ancora più decisa sia in termini monetari che fiscali.
Questo atteggiamento restrittivo riflette l’esistenza di una vera e propria distorsione deflazionistica dovuta all’attuale architettura istituzionale dei paesi dell’Unione monetaria europea (Ume). Questa distorsione è aggravata dalle modalità con le quali i governi europei stanno emendando tale architettura, che implicano l’esistenza di strategie di uscita dalla crisi premature e particolarmente pesanti.
Politiche di uscita dalla crisi vengono normalmente adottate da ogni paese che sia colpito da una crisi finanziaria ed economica, per due circostanze essenziali, che sono il prodotto delle politiche monetarie e fiscali espansive usate per combattere la crisi stessa: l’elevata quantità di moneta circolante e la crescita del deficit e del debito pubblico in rapporto al Pil.
Le dinamiche del debito pubblico
Le strategie di uscita normalmente seguite dai vari paesi implicano manovre monetarie e fiscali restrittive tendenti a evitare l’emergere di una nuova fase di instabilità. Ad esempio, l’elevata massa monetaria in circolazione potrebbe suscitare manovre speculative; aspettative di instabilità finanziaria potrebbero sorgere in connessione con il deterioramento dei conti pubblici. Altre strategie di uscita, come appropriate regolamentazioni dei mercati, in particolare di quelli finanziari, possono essere richieste per eliminare le condizioni dalle quali era scaturita la crisi. Anche queste politiche possono avere effetti restrittivi nel breve periodo (si pensi ad esempio agli effetti di Basilea 3).
Le politiche di uscita indicate sono spesso ritenute urgenti. Tuttavia, esse non possono essere adottate prima che siano emersi chiari segnali di una tendenza al superamento della crisi, per non rischiare di deprimere ulteriormente il basso livello dell’attività economica. Bilanciare queste opposte esigenze è una questione delicata, tanto più in un’unione monetaria che non sia anche unione fiscale, come nella Ume, nella quale sorge la tendenza ad adottare prematuramente strategie deflazionistiche.
La specificità dell’evoluzione della crisi nell’Ume viene normalmente attribuita alla dinamica del debito pubblico in alcuni paesi, in particolare Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna (i cosiddetti Pigs). Contrariamente, però, all’andamento del debito privato, cresciuto dal 55% del 2000 al 70% del 2008, prima della crisi il debito pubblico aveva subito una riduzione complessiva di 3 p.p. dal 2000 al 2007. La riduzione non era stata comune a tutti i paesi dell’Ume, ma fra i paesi che avevano aumentato il loro debito non vi erano soltanto Grecia e Portogallo, ma anche Francia e Germania. L’unico paese in cui il debito pubblico in rapporto al Pil è stato praticamente sempre alto e (leggermente) crescente nel periodo è la Grecia. Non si può perciò accettare, se non con riferimento a questo paese, la posizione di coloro che ritengono che la causa della crisi europea risieda nelle tenui prescrizioni restrittive del Psc e nel comportamento scorretto (rischio morale) dei vari governi, pronti a scaricare i loro atteggiamenti lassisti sui paesi maggiori e con fondamentali più solidi.
Rischi di insolvenza
Le cose sono un po’ diverse se ci si riferisce alle reazioni di politica economica alla crisi. Infatti, fino al 2009, per contrastarla molti paesi sono stati costretti ad accrescere i loro deficit, ciò che è assolutamente normale e opportuno. Successivamente, l’andamento dei saldi di bilancio pubblico è diventato dipendente dagli atteggiamenti restrittivi prevalsi nel complesso dell’Unione, per tentare di evitare o ridurre la prospettiva di insolvenza dei conti pubblici. Anche il modo in cui è stata congegnata l’assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà, per gli elevati tassi di interesse che da un lato segnalavano ai mercati l’esistenza di un rischio di insolvenza (default) e dall’altro accrescevano i deficit di bilancio, rendendo così necessarie, nell’ottica che ha prevalso dal marzo 2011 con la riforma del Psc, più drastiche e veloci manovre di bilancio restrittive. La prospettiva di elevati tassi di interesse e le restrizioni imposte alle politiche fiscali rischiano di produrre effetti cumulativi, con conseguenze disastrose.
Servono politiche fiscali comuni
In realtà, i veri limiti nelle istituzioni dell’Ume risiedono non nell’eccesso di rischio morale dei comportamenti pubblici, ma nell’incoerenza tra unificazione monetaria e assenza di altre politiche comuni, come è stato riconosciuto dallo stesso governatore della Bce. Infatti, politiche fiscali comuni consentirebbero di contrastare shock negativi che colpiscono i singoli paesi, senza indurre deterioramenti dei bilanci di questi paesi tali da generare aspettative di insolvenza e attacchi speculativi al debito dei paesi stessi e all’euro e da richiedere quindi politiche restrittive tese a evitare simili aspettative e attacchi. In particolare, attacchi speculativi a uno stato federale della dimensione dell’Ume richiederebbero la disponibilità di fondi molto superiori a quelli che devono essere usati in attacchi successivi a singoli governi di minori dimensioni.
In aggiunta, servirebbero più penetranti modalità di regolamentazione e vigilanza per far fronte ai rischi di instabilità sistemica, nonché politiche salariali e del lavoro capaci di evitare quegli shock simmetrici e asimmetrici che hanno causato, direttamente o indirettamente, problemi di bilancio di alcuni.
Sorge, in sintesi, la necessità di rivedere i tratti originari nella architettura istituzionale dell’Ume, che affidavano ai mercati il compito di indurre comportamenti virtuosi dei soggetti privati e pubblici e di punirne scelte irresponsabili, tratti riconfermati e rafforzati nei mesi più recenti. Essi non costituiscono soltanto dei rimedi parziali alla crisi, ma possono addirittura generare aspettative auto-realizzantesi.