Tagliare le emissioni inquinanti a zero per il 2050: è l’obiettivo della Glasgow Financial Alliance for Net Zero cui partecipano 450 tra banche, assicurazioni, fondi di investimento. Ma i criteri sono molto opachi e la finanza verde appare come un grande greenwashing.
Sarebbero necessarie grandi risorse finanziarie
Nelle ultime settimane, come è noto, nel mondo si è discusso e scritto molto sulle questioni ambientali, in particolare in occasione dei recenti e poco soddisfacenti incontri del G20 e del COP26 ad esse dedicati.
Mentre alcuni temi fondamentali, quali ad esempio quello del ruolo dell’agricoltura nell’aumento dei livelli di inquinamento o quelli dei problemi dell’acqua e degli oceani, sono stati sostanzialmente e inspiegabilmente trascurati in tali sessioni, si è parlato invece molto di altri; tra questi anche il possibile contributo della finanza alla mitigazione della crisi climatica, contributo che appare certamente e potenzialmente fondamentale.
Tra l’altro, appare corretto affermare, come si fa in giro, che assisteremo sperabilmente nei prossimi anni alla più grande riallocazione di capitale dalla rivoluzione industriale ad oggi. Secondo alcune stime, bisognerebbe stanziare 4.000 miliardi di dollari all’anno, il triplo dei valori attuali, per alcune decine di anni, al fine di raggiungere gli obiettivi auspicati (The Economist, 2021).
Ci sembra così opportuno analizzare brevemente almeno alcuni aspetti di questa discussione, con riferimento anche ai suoi precedenti temporali, facendo riferimento a diversi articoli apparsi di recente sulla stampa internazionale.
I titoli verdi
La cosiddetta “finanza verde” non cessa di crescere come dimensioni ogni giorno e a vedere aumentare anche lo spazio dedicatole nei giornali. Ricordiamo che con l’espressione “finanza verde” si fa normalmente riferimento all’emissione di titoli cosiddetti ESG (Envirnmental, Social, Governance), che rispettano cioè i criteri ambientali, sociali e di cosiddetta buona governance.
Secondo una fonte, la Global Sustainable Investment Alliance, gli attivi classificati come sostenibili rappresentavano già alla fine del 2019 35.000 miliardi di dollari nel mondo sviluppato, cioè il 36% di tutti i fondi gestiti professionalmente. Ma mentre l’emissione di tali titoli cresceva in maniera esponenziale, crescevano anche le emissioni inquinanti (Albert, Chocron, 2021).
In effetti, bisogna intanto ricordare che, per quanto un progetto sia sporco, si trova sempre sul mercato qualcuno pronto ad investirvi; se una qualche istituzione finanziaria lo abbandona per ragioni ecologiche, qualcun altro, se si prevede un ritorno adeguato, lo sposerà. Ci sono ancora molti soldi da fare, in effetti, con i progetti nelle energie fossili (Albert, Chocron, 2021).
Gli attori dei mercati finanziari sono lì per guadagnare e investiranno nella finanza verde soltanto se darà rendimenti almeno pari a quelli della finanza non verde (Albert, Chocron, 2021).
Quindi, in sostanza, l’emissione di titoli verdi appare un esercizio per molti versi abbastanza vano, se non, forse, perché può aiutare ad accrescere la sensibilità verso i temi della crisi climatica.
Ma la finanza sostenibile è veramente sostenibile, si chiede anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco? E, un’altra faccia della stessa medaglia, quali sono le imprese che utilizzano di più i prodotti segnalati come ESG?, si chiede sempre Albert (Albert, 2021). Uno studio del britannico New Financial indica che nella UE il 47% dei fondi relativi sono utilizzati dalle compagnie petrolifere e minerarie; certo esse dichiarano di utilizzare i finanziamenti per progetti verdi, ma chissà cosa succede veramente; “i denari non hanno il collarino”, come ricordava il grande banchiere Raffaele Mattioli. E, d’altro canto, si tratta di operazioni che servono a crearsi un’immagine spesso falsa.
Così la francese Total, grande impresa petrolifera, ha promesso di emettere in futuro soltanto titoli verdi, il che significa che tali titoli serviranno a finanziare anche le attività di esplorazione petrolifera.
Mancano definizioni comunemente accettate per gli investimenti ESG, in presenza di possibili incertezze su come pesare proporzionalmente i criteri ambientali con quelli sociali e quelli relativi alla governance. Mancano standard comuni, una terminologia chiara, una classificazione accessibile dei vari prodotti finanziari, degli strumenti di controllo. Anche in tale quadro, gli investitori finali ben intenzionati potrebbero essere ingannati e trovarsi in difficoltà nell’orientarsi in un mondo molto confuso (Oliver, 2021).
Ora, la Commissione Europea si è lanciata da qualche tempo in un processo di classificazione per decidere quali titoli meritano l’etichetta ESG e quali no; il dibattito è molto complesso e le lobbies sono all’opera: bisogna includere il nucleare e il gas? e come mettere nello stesso paniere il verde, il sociale e la governance? (Albert, 2021).
La Cop26 ha generato Gfanz
E’ stata varata nell’aprile del 2021 anche in vista del COP26, quella che ha preso il nome di Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ), raggruppamento cui partecipano 450 tra banche, assicurazioni, fondi di investimento, ecc.; insieme le imprese partecipanti controllano attività finanziarie per 130 trilioni di dollari. L’alleanza si propone come obiettivo quello di tagliare le emissioni inquinanti a zero per il 2050, con dei passaggi intermedi abbastanza precisi.
Secondo i dati disponibili, però, molti dei firmatari dell’alleanza restano tra i maggiori sostenitori delle energie fossili, mentre alcuni di essi hanno procurato nuovi finanziamenti alle infrastrutture di carburanti fossili anche dopo aver firmato l’ingresso nel patto (Mazzuccato, 2021). Così l’estrazione di petrolio nella foresta amazzonica è finanziata da membri del raggruppamento e altri soci emettono obbligazioni per una società che costruisce oleodotti nei territori indigeni.
A parte il grande problema di come misurare correttamente le emissioni, c’è quello che non fanno parte dell’alleanza le grandi imprese energetiche statali dei principali paesi, mentre i firmatari del raggruppamento controllano solo una ridotta minoranza delle emissioni del mondo (The Economist, 2021).
D’altro canto, come abbiamo già accennato nel paragrafo precedente, se il finanziamento venisse ritirato a certe imprese e a certi progetti molto inquinanti, essi troverebbero comunque chi avrebbe voglia di finanziarli. Il problema è che ci vuole un intervento pubblico che fissi le regole del gioco. Si veda a questo proposito meglio nelle conclusioni.
Comunque, in positivo l’azione di tali raggruppamenti finanziari attivisti può contribuire a porre della pressione su molte imprese per spingerle a comportamenti più salutari per il mondo.
I 100 miliardi di dollari
Ricordiamo come i paesi ricchi insistono da tempo che paesi come l’India (indicato alla fine del COP26 come il cattivo di turno), Indonesia e Sud Africa, devono accelerare i loro programmi per uscire dal carbone e dagli altri carburanti fossili, mentre tali paesi sottolineano che mancano delle risorse finanziarie per farlo e che i paesi ricchi sono stati sino ad oggi piuttosto avari (The New York Times, 2021).
Come stanno le cose? Come è noto, i paesi occidentali avevano promesso nel 2009, in uno dei tanti incontri internazionali, di versare ogni anno, entro il 2020, 100 miliardi di dollari a quelli più poveri per risarcirli dei danni da essi provocati nel tempo sulle questioni ambientali e per aiutarli ad investire nelle energie rinnovabili.
I fondi erogati, accettando una definizione molto generosa delle cifre relative, sono stati pari a 58,5 miliardi nel 2016 e si arriverà forse a 83-88 miliardi nel 2021, di cui una parte rilevante fornita da finanziamenti privati e all’export (Hook, Kao, 2021). Ad essere ottimisti l’obiettivo sarà raggiunto nel 2023.
Intanto si hanno molti dubbi sulle cifre fornite; secondo alcune fonti, in realtà i finanziamenti da prendere in considerazione nel computo sarebbero molto minori (sino ad un quinto soltanto delle cifre ufficiali) (Pickard, Hook, 2021). Non è chiaro poi come bisogna spendere il denaro, chi lo dovrebbe ricevere, o come assicurarsi che esso venga speso bene e chi deve decidere di tutto questo. E ancora chi deve pagare, quando il denaro dovrebbe arrivare e arriverà in tempo per evitare la catastrofe?
Molto del denaro già stanziato in realtà è stato indirizzato dai paesi ricchi alle grandi istituzioni finanziarie internazionali che dovrebbero poi dirottarlo a quelli poveri; ma esse hanno già a disposizione larghe fonti di finanziamenti e, d’altro canto, non sembra che abbiano risposto molto bene alla sfida (Hook, Kao, 2021).
Per quanto riguarda i paesi finanziatori si distinguono in positivo quelli scandinavi e la Germania, la Francia e il Giappone, mentre in negativo bisogna ricordare l’Italia e soprattutto gli Stati Uniti, che si colloca all’ultimo posto nella classifica di quelli più generosi (Hook, Kao, 2021).
Anche la finanza per il clima è stata perturbata da sprechi, corruzione e inefficienza, caratteristiche peraltro tipiche, in generale, dei progetti di aiuto allo sviluppo.
Bisogna poi considerare che le stime relative alle necessità finanziarie dei paesi in via di sviluppo per aiutarli ad adattarsi ai mutamenti climatici si collocano tra i 300 e i 600 miliardi di dollari all’anno da qui al 2030 – molto di più quindi di quanto potrebbero ricevere nei prossimi anni – e questo senza considerare i possibili danni permanenti fatti nel tempo con i comportamenti irresponsabili del mondo sviluppato (Sengupta, 2021).
Conclusioni
Sul tema dei finanziamenti della lotta ai cambiamenti climatici ci troviamo, per quanto riguarda il Nord come il Sud, in una situazione di grande confusione – come ha anche mostrato il vertice Onu appena conclusosi -, nella quale le grandi come le piccole imprese riescono per la gran parte ad operare come loro aggrada, mentre le stesse imprese e le istituzioni finanziarie rendono un omaggio formale ai temi ambientali e li usano spesso come foglie di fico. Si parla a questo proposito di greenwashing. Non mancano le istituzioni e i paesi di buona volontà, ma i loro sforzi sono molto al di qua di quanto sarebbe necessario e, in ogni caso, appare fondamentale un rilevante intervento pubblico per creare le condizioni atte a far operare il settore secondo gli obiettivi auspicabili.
Sono in effetti le agenzie internazionali e i vari governi che dovrebbero imporre al più presto norme molto stringenti sul piano ambientale per costringere le imprese a uscire dalle fonti fossili e ad abbracciare le attività a zero emissioni, attraverso strumenti quali tariffe sull’emissione di anidride carbonica, sussidi alle energie rinnovabili e investimenti diretti (Mazzuccato, 2021; Albert, Chocron, 2021).
Combattendo i grandi inquinatori si farebbe anche un passo nella lotta alle diseguaglianze (Weston, 2021). Ma sarebbe necessario un altro articolo per discutere meglio di questa ultima questione.
Testi citati nell’articolo
-Albert E’., Des produits toxiques dans la finance verte, Le Monde, 27 ottobre 2021
-Albert E’., Chocron V., Le mirage de la « finance verte », Le Monde, 22 ottobre 2021
-Hook L., Kao J. S., COP26: where does all the climate finance money go?, www.ft.com, 3 novembre 2021
-Mazzuccato M., Banks are still financing fossil fuels-while signing up to net zero pledges, www.theguardian.com, 4 novembre 2021
-Oliver J., UK green funds attract record retail inflows, www.ft.com, 9 novembre 2021
-Pickard J., Hook L., Rich countries scramble to hit $100bn climate finaqnce target, www.ft.com, 8 novembre 2021
-Sengupta S., Calls for climate reparations reach boiling point in Glasgow talks, www.nytimes.com, 11 novembre 2011
–The Economist, The use and abuse of green finance, 6 novembre 2021
–The New York Times, 6 takeaways from the U.N. climate conference, www.nytimes.com, 13 novembre 2021
-Weston P., Luxury carbon consumption of top 1% threatens 1.5C global heating limit, www.theguardian.com, 5 novembre 2021