Secondo il concetto della Catallassi è in rete che ciascuno può valorizzare se stesso e vendere sè stesso. È invece in questa nuova fabbrica che si chiama rete che occorre portare conflitto, contrattazione e democrazia
Ormai siamo (quasi) tutti capitalisti e (quasi tutti) crediamo nella mano invisibile del mercato. Se poi la mano invisibile vi sembra un concetto vecchio e da ammodernare, ecco il gioco della catallassi secondo il neoliberista Friedrich von Hayek, quel gioco di mercato che deriva dal greco katallattein o katallassein e che definiva lo scambio e lo scambiare (e non solo in termini economici), ma anche l’entrare in comunità e diventare da nemici, amici. Un gioco dove tutte le informazioni sono date dai prezzi che agiscono come messaggi o segnali impersonali ma razionali. Un gioco dove ciascuno ha/è un certo capitale (umano e/o sociale), dove ciascuno ha un suo prezzo che definisce il suo valore di scambio, dove ciascuno è stato convinto che questo sia il modo migliore per far stare insieme (far entrare nella comunità del mercato, dove i nemici diventano amici) soggetti che hanno interessi diversi tra loro.
Un gioco della catallassi che si replica da tempo anche in rete, da quando ha smesso di essere libera e autogestita ed è divenuta anch’essa capitalista, si è messa nelle mani della Silicon valley (oligopolio della tecnologia e dell’innovazione; ma soprattutto oligarchia dell’industrializzazione del nostro immaginario collettivo e della nostra felicità tecnologica), anch’essa neoliberista: una rete dove tutto sarebbe assolutamente spontaneo, libero e quindi democratico; dove ciascuno scambierebbe e comprerebbe liberamente senza più intermediazioni; dove ciascuno potrebbe valorizzare se stesso e vendere se stesso, mettendosi in vetrina; dove tutto sarebbe gioco e leggerezza e gamification; dove domanda e offerta si incontrerebbero in modo magico e libero; dove tutti sarebbero amici ed entrerebbero a far parte di qualche comunità.
Che poi questo gioco della catallassi (neoliberista e tecnico) sia solo la versione tardo-novecentesca della fallimentare e ottocentesca mano invisibile di Adam Smith, poco importa. Ciò che conta è credere alle ombre proiettate da Wall Street e dalla Silicon valley sulle pareti/schermi della caverna platonica del tecno-capitalismo in cui viviamo e dove finalmente ciascuno può sognare di realizzare se stesso mettendo l’immaginazione e la creatività finalmente al potere.
Per chi invece continua a pensare umanisticamente, razionalmente, eticamente che i processi – economici e tecnologici (soprattutto quando questi si presentano come nuove antropologie, come religioni secolarizzate che voglio produrre un uomo nuovo tecno-capitalista) – devono essere governati dalla polis, dal demos per evitare che siano invece tali processi (come scriveva Gunther Anders) a governare noi, tutto si fa maledettamente complicato. Sempre più complicato, al diffondersi delle retoriche per cui l’innovazione non si deve e non si può fermare, che l’uberizzazione e la foodorizzazione del lavoro sono il nuovo che avanza; che Amazon è il massimo dell’eccellenza (mentre è solo la prosecuzione del vecchio Postal Market, con altri mezzi).
Sostenere che occorre governare tali processi significa poi esporsi all’accusa infamante di essere luddisti. E tuttavia e contro questa deliberata distorsione della realtà, occorre riaffermare l’esigenza, anzi l’urgenza e quindi il dovere intellettuale e morale (un dovere che dovrebbe riguardare soprattutto la sinistra e il sindacato) di tornare (visto che in passato è già stato fatto) a governare i processi, quelli economici e soprattutto tecnologici, i più sfuggenti e apparentemente inafferrabili. Perché – ma tutti sembrano averlo dimenticato – economia e tecnica sono dei mezzi e quindi devono essere usati responsabilmente e a fini di utilità sociale (come sostiene l’articolo 41 della nostra Costituzione), e non diventare, come invece sono diventati, dei fini divenendo invece noi i mezzi umani messi al lavoro a prestazione crescente per accrescere i profitti e la potenza del capitalismo e della Silicon valley. Che oggi continuano a vincere sulla scena mediatica e dell’industria culturale perché offrono non tanto merci, non solo un reddito (in realtà decrescente e sempre più disuguagliante), ma l’incessante promessa/offerta di emozioni, immaginari, pathos, godimento, individualismo narcisistico: è il capitalismo delle emozioni che diventa una cosa sola con il capitalismo delle piattaforme, noi diventando lavoratori e insieme consumatori instancabili (siamo soggetti desideranti per definizione e per natura) della fabbrica delle emozioni e del godimento.
Certo, oggi in tempi di esternalizzazione del lavoro, di sua individualizzazione e di uberizzazione virtuosa (virtuosa per le imprese), di dover essere imprenditori di se stessi, di sharing economy, di retoriche dell’auto-responsabilizzazione e dell’auto-valorizzazione ma anche di impresa come comunità di lavoro, di manager della felicità, di lavoro non come prestazione ma come collaborazione con l’impresa – è difficile immaginare di portare la democrazia oltre i cancelli della rete (nel capitalismo delle piattaforme e nel capitalismo delle emozioni) ed è difficile anche perché trionfa appunto il discorso tecno-capitalista della catallassi, della rete libera e democratica, della auto-imprenditorialità. Una rete che dobbiamo invece imparare a considerare – come è – il nuovo mezzo di connessione e il nuovo mezzo di produzione. La Fabbrica (non solo quella 4.0, ma tutto ciò che è lavoro, consumo e divertimento) è la rete stessa, apparentemente orizzontale e basata sulla condivisione virtuosa e libera, in realtà verticalizzata e gerarchizzata dal nostro rapporto, appunto verticale e individuale con le piattaforme capitalistiche, con i loro algoritmi e con le emozioni personalizzate che producono. Fabbrica il cui fine sistemico è la connessione di tutti con tutti (necessaria al data mining e alla connessione di tutti i lavoratori monadizzati e autonomizzati) e l’accrescimento della prestazionalità di ciascuno.
Certo, non mancano gli esempi virtuosi di contrasto e di reazione. Come i lavoratori milanesi di Deliveroo che lo scorso 15 luglio hanno manifestato in piazza, auto-organizzandosi, per migliori condizioni di lavoro; o, un mese fa, i corrieri di Amazon che sono anch’essi riusciti a contrattare con il gigante dell’e-commerce; o i lavoratori londinesi di UberEats, lo scorso anno; o le molte sentenze inglesi che riconoscono essere gli autisti di Uber dei lavoratori dipendenti a tutti gli effetti. Ma questo non basta ancora, se prima non si agisce sul piano dell’antropologia, iniziando a de-strutturare e a smascherare il discorso (la narrazione, lo storytelling, le emozioni che produce) neoliberale che ha conquistato l’egemonia in questi ultimi trent’anni.
Ha detto recentemente Mark Zuckerberg: Osare sempre, per essere sempre davanti a tutti. Filosofia nuova e subito celebrata dai media, anche se non è altro che la vecchia storiella neoliberista degli anni ‘80 per cui: che tu sia leone o gazzella, importante è correre e farlo sempre più velocemente. Sublimazione filosofica/pedagogica del tecno-capitalismo, per sostenere la sua dynamis, la mobilitazione totale di tutti da attivare e sostenere agendo sulla produzione di emozioni e di godimento, altrimenti il meccanismo (la dynamis) si incepperebbe e nessuno crederebbe più al magico gioco della catallassi. Che per produrre profitto – e non essendo qualcosa di naturale – deve essere sostenuto da una pedagogia tecnica ed economica fatta di un mix di narcisismo, stato di natura concorrenziale nella nuova guerra economica di tutti contro tutti, asocialità fattasi moralità pubblica e privata, totale assenza di scrupoli e di senso di responsabilità (osare sempre significa infatti fare senza pensare; fare responsabilmente è invece tutta un’altra cosa), indifferenza per gli altri, auto-normatività, principio di prestazionalità. Integrando sempre più l’individuo – che pure dice di liberare da ogni assoggettamento – in sé come apparato e come Fabbrica in rete (e la rete come Fabbrica), fatta di tecnologie digitali, di internet delle cose, di profilazioni incessanti in stile Grandissimo Fratello (il Big Data), di cloud e di open innovation, di crowd-sourcing, di economia circolare, di nuovi modelli di business ma anche di crowd-funding oltre che di stalking marketing e di taylorismo digitale.
Ed è allora in questa nuova Fabbrica che si chiama rete, dominata dai nuovi padroni del vapore digitale della Silicon valley che occorre portare il conflitto, la contrattazione, la democrazia. Ricordando – ancora soprattutto alla sinistra – ciò che diceva negli anni ‘40 un liberale inglese come William Beveridge e cioè che nel rapporto di lavoro lo stato deve sempre difendere e tutelare la parte debole, ovvero il lavoratore. E non quella più forte – come accade invece dal Pacchetto Treu di ieri al JobsAct di Renzi, oggi.