Dalla premessa
Rating, dall’inglese «valutazione», è un vocabolo divenuto di uso corrente per indicare la descrizione di determinate caratteristiche riferite a istituzioni pubbliche e private. Dal momento che fine ultimo del rating è solitamente la compilazione di un ranking, altra espressione inglese diffusa il cui significato è «classifica», la descrizione avviene in forma di misurazione espressa in termini numerici o comunque quantitativi, in quanto tali frutto di notevoli semplificazioni e arbitri. Ciò nonostante alcuni rating e i relativi ranking hanno assunto il rango di veri e propri oracoli utilizzati per sponsorizzare riforme particolarmente incisive del nostro stare insieme come società.
Si pensi alle classifiche composte dalle mitiche agenzie di rating, appunto, che misurano la solvibilità degli Stati, la loro affidabilità in quanto debitori, a beneficio di chi intende acquistare titoli del debito pubblico: un tempo soprattutto semplici cittadini, per mettere i risparmi al riparo dall’inflazione, da alcuni anni soprattutto gli investitori istituzionali, per realizzare profitti attraverso la speculazione finanziaria.
Consideriamo ad esempio il rating della Germania confezionato da Standard &Poors’s: si valuta che abbia ottime capacità di onorare gli impegni assunti in quanto, afferma l’agenzia in una nota, oltre a possedere un’economia moderna, ha un governo capace di adottare politiche fiscali prudenti e di tenere la spesa pubblica sotto controllo. Il rischio sopportato da chi investe in titoli del debito tedeschi, il rischio che la Germania non sia in grado di restituire le somme prese a prestito, è allora sostanzialmente inesistente, e non ha bisogno di essere ripagato da tassi di interesse elevati.
Diversa la situazione dei paesi che godono di cattiva fama quanto alla loro affidabilità come debitori: per attrarre acquirenti dei loro titoli del debito devono promettere tassi di interesse particolarmente elevati, abbastanza da bilanciare il rischio di insolvenza. È quanto deve fare l’Italia, il cui governo, sempre per Standard & Poor’s, non riesce realizzare le riforme strutturali necessarie a ridurre l’enorme debito pubblico. Va da sé che, se i tassi di interesse sono elevati, la complessiva situazione debitoria del paese peggiora, giacché anche il cosiddetto servizio del debito costituisce una percentuale importante della spesa pubblica. E visto che questa viene finanziata con il debito, il paese debitore ritenuto inaffidabile viene trascinato in una spirale perversa.
A questo punto entra in gioco una terza parola inglese di uso corrente: lo spread, il «differenziale» tra i tassi di rendimento dei titoli di Stato tedeschi, il più basso in Europa, e quelli italiani (a dieci anni). Qui il risultato peggiore è stato ottenuto sul finire del 2011, quando lo spread ha raggiunto la sua quota record, preceduto da previsioni nefaste delle agenzie di rating sulla solvibilità dello Stato italiano. Da allora il Belpaese occupa i posti bassi delle classifiche che misurano l’affidabilità dei debitori sovrani, con le agenzie di rating tutt’ora impegnate a sostenere che i suoi titoli del debito sono più o meno vicini al livello dei titoli spazzatura.
Si è così scatenata una corsa contro il tempo per realizzare ciò che i mercati finanziari pretendono per pronosticare un miglioramento quanto alla solvibilità del debitore Italia: una diminuzione delle uscite attraverso la riduzione della spesa in prestazioni sociali, un incremento delle entrate con un programma di privatizzazioni e liberalizzazioni, e una riforma del mercato del lavoro destinata a precarizzarlo e flessibilizzarlo. Il tutto nel disprezzo del meccanismo democratico, sacrificato alle necessità del mercato, che richiede sottomissione a quella che a buon titolo può essere definita la dittatura dello spread.
Che per salvare il mercato si sacrifichi la democrazia, non è certo una novità. È accaduto nella prima metà del Novecento, quando la richiesta di una mano visibile che sostenesse l’ordine economico, e imponesse a monte la necessaria pacificazione sociale, ha prodotto l’esperienza fascista. Proprio per questo i paesi che l’hanno vissuta si sono poi dotati di costituzioni in cui, accanto alla democrazia politica, si prescrive la democrazia economica: il legislatore deve promuovere lo sviluppo della persona anche quando disciplina il mercato, evitando di subordinare la garanzia dei suoi diritti fondamentali a quanto di volta in volta richiesto per sostenere l’ordine economico.
In molti, soprattutto dalle fila dell’antifascismo, si riconobbero in questo programma e vollero rafforzarlo ponendolo alla base dell’unità europea: fu questo il senso del noto Manifesto di Ventotene. Quando l’unità venne avviata, però, fu per perseguire finalità di segno opposto: per produrre un’integrazione incentrata sulle libertà di mercato, indifferente, se non ostile, alle sorti dei diritti fondamentali e della democrazia.
Il primo stimolo in questo senso, alla conclusione del secondo conflitto mondiale, derivò dall’Organizzazione per la cooperazione economica europea, voluta dagli statunitensi per utilizzare l’assistenza finanziaria prevista dal Piano Marshall come incentivo al posizionamento nell’incipiente guerra fredda. Fu l’occasione per sperimentare una modalità destinata a divenire il principale strumento di integrazione europea: quella per cui le trasformazioni richieste agli Stati per convergere verso fondamenti comuni, tutti relativi alla promozione delle libertà di mercato, si impongono come contropartita per la concessione di prestiti. E’ successo prima con l’ampliamento della Comunità economica europea verso sud, poi con l’allargamento dell’Unione europea a est, e ora con la ristrutturazione del debito sovrano, guarda caso soprattutto dei paesi le cui costituzioni prescrivono la democrazia economica.
In tutto questo la Germania ha rivestito e riveste un ruolo fondamentale, innanzi tutto come centro incaricato di disciplinare l’integrazione europea e di individuare i dati macroeconomici di riferimento. Un tempo si privilegiava la sostenibilità delle bilance dei pagamenti nazionali, ma ora, con l’economia tedesca in forte surplus, le cose sono cambiate: tutto ruota attorno al contenimento del deficit e del debito pubblico a presidio di un’unione monetaria ossessionata dal controllo sull’inflazione. Le ricette di politica economica verso cui far convergere i paesi europei sono infatti un riflesso della disciplina di bilancio imposta soprattutto attraverso la regola del pareggio: è per rispettarla che si taglia la spesa pubblica, si incentivano le privatizzazioni e le liberalizzazioni, e si rende il lavoro flessibile e precario.
Peraltro il ruolo della Germania nello sviluppo dell’integrazione europea si gioca soprattutto sul terreno dei suoi fondamenti ideologici, riassunti nella formula «economia sociale di mercato». E’ una formula volutamente fuorviante, che vorrebbe richiamare l’idea di un capitalismo dal volto umano, ma solo per confondere circa il senso della combinazione tra libero mercato e socialità. L’economia sociale di mercato, infatti, è tale perché identifica nel mercato il meccanismo migliore, e in questo senso sociale, di produrre e redistribuire ricchezza. Di qui la riduzione dell’inclusione nel mercato a inclusione sociale tout court, realizzata da uno Stato di polizia economica incaricato di imporre la concorrenza attraverso la spoliticizzazione del potere. Di qui anche il contrasto del confronto democratico, costretto entro schemi neocorporativi presidiati da un apparato tecnocratico, primo fra tutti quello incaricato di realizzare l’unione monetaria.
Tutto questo accade mentre da qualche tempo, in Italia, le notizie sullo spread hanno smesso di occupare le prime pagine dei quotidiani. In effetti, caduto il governo Berlusconi pochi giorni dopo il raggiungimento del record, il successivo governo cosiddetto tecnico, quello presieduto da Mario Monti, ha raggiunto l’obiettivo che si era dato: dimezzare lo spread grazie a un programma di riforme strutturali indicate dalla Banca centrale europea, destinate a provocare migliori previsioni sulla solvibilità del debitore Italia da parte delle agenzie di rating. Caduto anche il governo Monti, i successivi, l’attuale in testa, hanno proseguito l’opera del tecnico prestato alla politica, e questo ha provocato un’ulteriore discesa dello spread, al momento attestatosi su valori non particolarmente preoccupanti. Ciò mentre, come abbiamo detto, le pagelle distribuite dalle agenzie di rating all’Italia sono peggiorate. E si capisce: se quando Monti arrivò a Palazzo Chigi il debito pubblico era il 120% del pil, quel valore è poi cresciuto costantemente, sino a sfondare ampiamente la soglia del 130%.
Significa allora che la dittatura dello spread è cessata, perché le previsioni negative formulate dalle agenzie di rating non sono più in grado di condizionare il comportamento dei mercati? Per nulla: nonostante quelle previsioni non determinino una minore attrattività dei titoli del debito pubblico, la dittatura è più feroce che mai. Essa opera sul terreno delle scelte della politica italiana, che contemplano oramai un orizzonte unico e indiscutibile: occorre proseguire lungo la strada dei tagli alla spesa sociale, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro. Lo spread resta basso finché l’Italia convince circa la volontà di proseguire lungo questa strada, mentre è subito pronto a risalire se sorgono dubbi in proposito: come recentemente accaduto quando, negli ultimi momenti della recente campagna per le elezioni europee, sembrava che il governo potesse uscirne indebolito.
Continuiamo insomma a subire la dittatura della spread. I livelli bassi indicano solo che stiamo vivendo un periodo di pax finanziaria, pronta a incrinarsi se l’ortodossia richiesta dai mercati non riceve avalli incondizionati: se la democrazia non accetta di ridurre il suo perimetro in funzione delle necessità di riforma del capitalismo.
Alessandro Somma La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, DeriveApprodi, 2014