Dis-integrati/Alla precarietà del suo equilibrio basato su «nazionalità diverse», ha aggiunto l’impotenza del suo essere periferico nell’Europa governata dalla Troika
Di fronte all’azione del governatore della Catalogna Artur Mas (centro-destra nazionalista) e di molte forze sociali e politiche di quel territorio, l’esecutivo conservatore di Madrid si è finora distinto per immobilismo. Primo, e sinora unico, atto di Mariano Rajoy è stato il ricorso alla Corte costituzionale dello scorso lunedì, dichiarato subito ammissibile, che ha prodotto la sospensione della «consultazione» (questa la dicitura ufficiale) convocata dalle autorità di Barcellona per il prossimo 9 novembre. Quando esaminerà nel merito il caso, non c’è da dubitare che la Corte annullerà in via definitiva tutte le norme relative al referendum, sbarrando la strada alla possibilità che i catalani votino sulla nascita di uno stato indipendente.
La certezza deriva da un precedente molto rilevante, che è anche la ragione principale della «strategia» di Rajoy: il fallito tentativo di un’analoga consultazione nei Paesi baschi nel 2008. Anche allora era stato il governo locale, guidato dal Partito nazionalista basco (Pnv, centro-destra), a mettere in moto una «macchina dell’indipendenza» con l’obiettivo di celebrare un referendum che, attraverso un quesito piuttosto bizantino, esprimesse nella sostanza la volontà di separare il destino di Euskadi (regione assai ricca) da quello del resto della Spagna. L’intento fu bocciato dalla Corte costituzionale e, ciò che più conta, le successive elezioni amministrative produssero una svolta storica: il Pnv perse per la prima volta il controllo del governo regionale, che passò nelle mani dei socialisti del Psoe grazie a un accordo «tecnico-politico» con il Pp di Rajoy.
È a quello scenario che pensa il premier spagnolo, convinto evidentemente che, smontata legalmente la consultazione indipendentista, l’ondata del nazionalismo periferico sia destinata a rifluire. Spenti i bollori, senza più l’eco (potentissimo in Spagna) della secessione della Scozia che arrivava da oltre Manica prima della vittoria del «no», l’effetto-frustrazione porterebbe di nuovo la «tranquillità» del passato, sola dimensione nella quale il primo ministro si vede in grado di esercitare la propria malferma leadership. Peccato per Rajoy che l’analogia con la vicenda del mancato referendum basco non regga, per molteplici ragioni. Vediamone alcune.
Fra il 2008 e oggi c’è un abisso: la crisi ha trasformato in profondità un Paese che è passato in meno di dieci anni dall’euforia per i propri successi economici (le cui fondamenta erano evidentemente molto fragili) all’impotente contemplazione dell’enorme cifra di disoccupati (il 24,47% nel secondo trimestre 2014, in Catalogna il 20,2%) – senza dimenticare gli indicatori del debito pubblico, semplicemente esploso (al 36% nel 2007 e oggi al 96,4%). Le tanto celebrate «riforme», iniziate nell’ultima fase del governo socialista (la data-simbolo della svolta è il 12 maggio 2010, giorno in cui José Luis Zapatero annunciò le prime misure di austerità) e continuate con mano più dura da Rajoy, hanno indebolito notevolmente il già scarsamente sviluppato stato sociale spagnolo, abbassando naturalmente anche le tutele dei lavoratori (riducendo la quantità dell’indennizzo per licenziamento senza giusta causa). In questo quadro, ad andare in crisi è stata l’intero sistema istituzionale, entrato in una crisi di legittimità senza precedenti: non ne sono stati risparmiati i due partiti maggiori (il tradizionale bipartitismo si può dare per morto), la Corona, gli organi di garanzia e la stessa Costituzione del 1978.
La sconfitta dei nazionalisti baschi dopo il mancato referendum del 2008, inoltre, va addebitata alla peculiare circostanza che vedeva assenti dalla scheda elettorale gli indipendentisti di sinistra eredi della storica Batasuna, ai quali fu impedito, sulla base della molto controversa Ley de partidos, di presentare una propria lista. L’Eta non aveva ancora deposto le armi, e la società basca dava evidenti segni di non volere più reggere i costi di un conflitto costato centinaia di vite: il processo di «normalizzazione» della vita sociale e politica in Euskadi attualmente in corso è figlio di quella nuova stagione. Ora governa di nuovo il nazionalista Pnv, ma senza referendum secessionisti all’orizzonte. In Catalogna, invece, è stato proprio l’indipendentismo a diventare la bandiera di quasi tutti gli «scontenti», cresciuti di numero con l’acuirsi della crisi. Scontenti, peraltro, che sono assai diversi fra di loro nel sentimento «nazionale», dettato più dalla «appartenenza» etno-comunitaria per taluni, più dalla «convenienza» per altri: quelli, cioè, che credono che una Catalogna indipendente (che da sola vale il 20% del Pil spagnolo) possa navigare meglio nelle acque agitate dall’egemonia del finanz-capitalismo. E diversi anche per composizione sociale e valori politici: nel movimento per l’indipendenza si sono incontrati settori delle classi popolari che in passato votavano Psoe e la borghesia tradizionalmente affine al centro-destra nazionalista. Persino il tradizionale europeismo catalano – nato e cresciuto in chiave «anti-spagnolista» – non è più omogeneo.
La pacifica battaglia per «il diritto a decidere» che si combatte nelle strade e nei palazzi del potere di Barcellona è, dunque, la manifestazione più clamorosa di una crisi di legittimità complessiva dello stato spagnolo. Che alla storica precarietà del suo equilibrio di «stato di nazionalità diverse» ha aggiunto l’impotenza dello stato-nazione periferico nell’Europa della crisi economica in cui a dettar legge è la Troika. In un simile contesto, il galleggiamento di Rajoy è una strategia di sopravvivenza destinata con tutta probabilità al fallimento. Le sinistre di ambito statale – Psoe, Izquierda unida e Podemos – hanno invece (e per fortuna) compreso che la posta in gioco è la rigenerazione democratica dell’intero Paese, che deve passare necessariamente anche attraverso un nuovo assetto dei poteri fra centro e periferia. E cioè attraverso la nascita di una vera Spagna federale, in cui le prerogative di autogoverno delle regioni siano maggiori, e le relazioni istituzionali modellate sull’esperienza di «condivisione» fra Bund e Länder (Federazione e Stati) in Germania. Le elezioni politiche del prossimo anno, con queste premesse, avranno un indiscutibile significato «costituente».