Com’è difficile uscire dal pensiero unico “industrialismo-neoliberismo” e dalla saldatura tra stato e mercato che nega la democrazia. La natura, non il mercato, è il più grande produttore di beni e servizi. E la crisi ambientale sta dietro quella dell’economia. Una crisi da affrontare mettendo al centro i beni comuni e l’auto-organizzazione sociale
La crisi finanziaria esplosa in Europa nell’estate scorsa non riguarda solo l’Europa e non è solo finanziaria, ma in Europa ha assunto toni drammatici, e questo ci obbliga a ripensare alla costruzione dell’Europa e dell’eurozona, e al loro ruolo nella attuale fase storica: borse in picchiata in tutte le capitali europee e mondiali da oltre due mesi, Stati sull’orlo della bancarotta, milioni di persone senza lavoro, disoccupazione giovanile al 20 per cento (30 per cento in Italia), un trasferimento di reddito e di ricchezza dal basso verso l’alto senza precedenti cui vanno aggiunti i danni crescenti ai sistemi che sostengono la vita, che gravano su tutti ma soprattutto sui meno abbienti.
Le autorità di Bruxelles hanno detto immediatamente che per tagliare le unghie alla speculazione sull’euro gli Stati europei dovevano rientrare dal debito pubblico in tempi brevissimi, come se la parità di bilancio fosse un principio indiscutibile, un dogma da inserire addirittura nelle Costituzioni nazionali. La tesi non ha trovato nessuna resistenza di rilievo neanche a sinistra, nonostante l’esperienza e il buon senso indichino che tagliare la spesa pubblica farà aumentare e non diminuire il debito pubblico. I governi nazionali, di destra e di sinistra, si sono affrettati a realizzare le riforme ultraliberiste loro richieste (privatizzare tutto, possibilmente anche il Colosseo e il Partenone). Mutatis mutandis, sono le stesse ricette imposte negli anni 1980 dal Fondo monetario internazionale ai paesi del Sud del mondo, costretti ad affamare la popolazione per azzerare un debito estero che avevano già ripagato varie volte. L’altro dogma, predicato a destra e a manca, è la crescita (senza nessuna qualificazione rispetto ai bisogni).
Ci troviamo dunque a dover fare i conti con un’Europa neoliberista in cui Commissione europea e Banca centrale europea operano in piena armonia con il Fondo monetario internazionale (la troika). Aprendo questo Forum (il manifesto del 21 luglio), Rossana Rossanda scriveva: “Qualche anno fa, Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica, non ci saremmo mai riusciti data la storica rissosità dei singoli Stati”. Prodi aveva ragione, se per economia si intende la moneta e quindi l’economia di mercato e per politica si intendono gli Stati e non le popolazioni, che per gli Stati contano solo al momento del voto. Ma questa convinzione è molto riduttiva, e finisce per legittimare il neoliberismo. È vero che i padri dell’euro riconoscono che si potevano prendere già allora misure come il coordinamento delle politiche economiche: ma si tratta sempre di politiche economiche sul controllo dei mercati, ed è quindi lecito chiedersi il perché di tanta miopia politica.
La mia risposta è che la sinistra europea e italiana, quella che ha varato l’euro, credeva allora – e continua a credere oggi – nel luogo comune che non c’è alternativa all’economia di mercato e che le popolazioni devono sopportarne le conseguenze, anche se molto spiacevoli. È una sinistra che ha fiducia nella mano invisibile, nonostante i guasti che quella teoria ha prodotto nel corso di due-tre secoli e in particolare negli ultimi trent’anni. Se questa cecità politica poteva ancora essere accettata agli inizi degli anni 1980, quando il disegno reazionario del neoliberismo non era ancora del tutto chiaro, oggi essa è incomprensibile.
L’unica spiegazione possibile è che, “cresciuta a industrialismo e neoliberismo”, la sinistra europea non ha capito fino in fondo le trasformazioni profonde che la globalizzazione ha fatto emergere e le opportunità che quelle contraddizioni potrebbero offrire. Difficile pensare infatti che la megamacchina del finanzcapitalismo possa essere sensibile ad aggiustamenti marginali come regole più stringenti di funzionamento dei mercati e della finanza, contrarie alla sua natura e ai suoi fini. Ma potrebbe forse cambiare idea se la sinistra fosse in grado di indicare una prospettiva diversa da quella del mercato capitalistico, un orizzonte che decostruisca i luoghi comuni del neoliberismo. Solo così si potrebbe forse tentare di sanare la sfiducia del popolo di sinistra verso i partiti politici che pretendono di rappresentarlo e, insieme, dare una qualche autorevolezza a proposte come le nuove regole per controllare i mercati e la finanza, ristrutturare il debito pubblico, ridimensionare il ruolo della Banca centrale europea.
Priva di qualsiasi formazione ambientale, la sinistra italiana in particolare non si rende conto che per il mercato capitalistico la natura non esiste, è solo la “miniera” da cui prendere gratuitamente le risorse naturali e la “discarica” in cui liberarsi dei rifiuti prodotti dalla società dell’usa-e-getta. Nella realtà, la natura è invece il più grande produttore di beni e servizi, da cui dipende la vita stessa. La soluzione della crisi ambientale dovrebbe pertanto essere al primo posto della piattaforma della sinistra, non la crescita. Un’altra questione che questa sinistra non riesce a vedere riguarda il ruolo dello Stato, che non svolge più il ruolo di mediazione tra i soggetti in campo, poiché le grandi imprese e i mercati contano più degli Stati: Stato e Mercato sono diventati un soggetto unico, e questo ha svuotato di contenuto la democrazia di mandato, dando forza a nuove forme di partecipazione e di democrazia diretta. Altro tema centrale sono i movimenti o nuove comunità, che in tutto il mondo lottano in difesa delle proprie condizioni di vita, delle risorse naturali, dello sviluppo locale e del territorio, e hanno bisogno di riconoscimento anche sul piano giuridico. Sul territorio si riunificano infatti produttori e consumatori, si ricostruiscono i rapporti sociali, si pratica la solidarietà anziché la concorrenza internazionale.
Infine i beni comuni, specie quelli di sussistenza legati alla natura – aria, acqua, terra ed energia – che non sono un reperto del passato da archiviare, ma una esperienza ancora viva per le comunità del Sud del mondo che ogni giorno lottano contro la recinzione delle risorse naturali su cui esse vivono, e per i movimenti del Nord del mondo come nel caso italiano del Comitato NoTav in Val di Susa. Elinor Ostrom, la studiosa statunitense dell’Indiana University e premio Nobel per l’economia nel 2009, che studia i beni comuni da quarant’anni, è arrivata a conclusioni innovative e importanti. Le persone che operano all’interno di una comunità, sostiene Ostrom, sono capaci di auto-organizzarsi e di prendere decisioni che non mirano solo al profitto. E non è certo un caso che queste conclusioni siano state riprese recentemente da Zygmunt Bauman, nell’introduzione alla nuova edizione del suo libro più famoso, La modernità liquida, come un segnale che va nella direzione di un nuovo orizzonte della storia e della politica. La” riscoperta” dei beni comuni, intesi come un paradigma di organizzazione sociale e istituzionale alternativo al mercato, dovrebbe dunque trovar posto nell’agenda della sinistra: anche in questo caso, è forse il caso di dire “se non ora, quando?”