Lo sviluppo economico e sociale è legato alla capacità di agganciare i grandi cambiamenti di struttura, che sono per lo più cambiamenti legati alla capacità di “generare” conoscenza
Nella società e nell’economia della conoscenza c’è qualcosa di nuovo e inedito: quello di integrare gli strumenti convenzionali della politica economica con la conoscenza scientifica. Non perché in precedenza questa non fosse utilizzata, ma perché il patrimonio accumulato delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sta cambiando la strumentazione – a nostra disposizione – per fare politica economica.
La novità suggerita da Sergio Ferrari, già vice direttore dell’Enea , in Società ed economia della conoscenza, edito da Mnamon (6,00 euro), è legata alla capacità di programmare le innovazioni da parte del sistema privato e pubblico. Un cambio di paradigma che non interessa solo i meccanismi dello sviluppo, ma più in generale le scelte, i valori che la società nel suo insieme intende perseguire. Il rafforzamento del rapporto tra conoscenza scientifica e sviluppo economico, pur con tutte le sue contraddizioni, declina una idea positiva e ottimistica della società. La “conoscenza” ha in sé un valore positivo. Si parte dai limiti dello sviluppo, per arrivare allo sviluppo sostenibile e dunque all’economia e società della conoscenza. Questi passaggi danno conto di quanto e come sia possibile offrire uno sbocco alla crisi economica, ma alla condizione di non fare della società della conoscenza un luogo romantico e privo di contraddizioni. L’investimento pubblico deve ri-appropriarsi del suo ruolo storico. Ferrari, pur non citandolo, ricorda il conflitto capitale-stato di Paolo Leon: “mentre i profitti e i dati di bilancio delle aziende sono “curati” dalle imprese, l’occupazione, la bilancia commerciale, il PIL, i servizi pubblici, la salute e la sicurezza, sono a carico delle istituzioni pubbliche. Non si tratta di una attribuzione formale, piuttosto del fatto che nessun imprenditore (per quanto illuminato) potrebbe gestire una impresa ottimizzando l’occupazione nazionale, la bilancia commerciale, la spesa sanitaria, ecc”.
Una sfida che diventa ancor più complessa se consideriamo che il lavoro domandato e offerto difficilmente assicurerà la piena occupazione, soprattutto nelle economie avanzate. In questi paesi si manifesta un eccesso di capacità produttiva che interroga i rapporti sociali. La riduzione degli orari di lavoro del 20% intervenuta nell’ultimo secolo, per l’Italia come per altri Paesi, ancorché in Italia si lavora 200 ore in più della Germania, dà conto delle anacronistiche riforme del mercato del lavoro e delle pensioni del governo Monti, cioè un aumento delle ore lavorate totali pro capite sull’intero arco della vita. Analisi sbagliate suggeriscono delle risposte peggiori del male che si vuole curare.
La società della conoscenza ha delle enormi implicazioni economiche e sociali. Le conoscenze scientifiche e tecnologiche condizionano lo sviluppo di un Paese. Ferrari assume come rilevanti le conoscenze scientifiche e tecnologiche, non per eliminare il patrimonio delle conoscenze di diversa origine, ma per sottolineare il modo in cui esse trasformano il lavoro, la vita dei cittadini, l’accumulazione della ricchezza e i rapporti tra accumulazione della ricchezza e la trasformazione dei valori sociali e culturali. Financo la possibilità di uscire da una crisi che per l’Italia si manifesta come una crisi nella crisi, che ha radici lontane e non attribuibili alla crisi internazionale. Ferrari ricorda un grande intellettuale come A. Graziani, recentemente scomparso, il quale affermava che “inserire stabilmente in un contesto di paesi avanzati un Paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato soltanto per la compressione del costo del lavoro, potrebbe rilevarsi un obiettivo assai più arduo da conseguire”. (A. Graziani, 1997, I conti senza l’oste”, ed. Bollati Boringhieri).
In qualche modo lo sviluppo economico, sociale e dei redditi è legato alla capacità di agganciare i grandi cambiamenti di struttura, che sono per lo più cambiamenti legati alla capacità di “generare” conoscenza. Se il rallentamento dello sviluppo dei paesi avanzati coincide con l’uscita dal sottosviluppo di intere popolazioni, in altre parole il capitalismo che trovava delle difficoltà nel conservare, nelle sedi storiche, determinati margini di profitto, aveva tutto l’interesse a creare nuovi mercati e nuove riserve di lavoro a basso costo, si osserva come in tutti i paesi, anche in quelli emergenti, si tenda a consolidare la spesa in ricerca e sviluppo. Rimanendo al solo caso cinese, la spesa in ricerca e sviluppo cresce del 10% annuo, raggiungendo e superando l’Italia nel rapporto spesa in ricerca e sviluppo-PIL. Non solo l’economia internazionale si integrava, ma gli scambi commerciali crescevano molto più velocemente dell’integrazione economica, con un aspetto inedito: i prodotti ad alta tecnologia del commercio internazionale salgono al 30% del totale, con dei tassi di crescita di 12 punti più alti dei beni e servizi non ad alta tecnologia. La sintesi di Ferrari è la seguente: 1) il cambiamento non è solo quantitativo, ma realizza una nuova relazione tra conoscenza scientifica e applicazioni tecnologiche; 2) l’accumulo di conoscenza scientifica e del potenziale tecnologico ha generato un nuovo strumento per lo sviluppo, più in particolare la possibilità di programmare l’innovazione tecnologica; 3) la programmazione dell’innovazione tecnologica apre una serie di questioni di natura etica, politica, sociale ed economica.
In questo contesto l’Italia, che aveva realizzato un vero e proprio miracolo economico dopo la fine della seconda guerra mondiale, non gioca un ruolo. L’Europa è marginale e meriterebbe ben altre istituzioni, ma la crisi dell’Italia non coincide con l’avvio dell’euro (Maastricht). La critica alle politiche europee è corretta, ma questa critica rimuove il fatto che già prima del 1992 l’Italia riusciva a restare sul mercato internazionale solo attraverso delle svalutazioni monetarie. Il declino dell’Italia era precedente agli anni novanta. È stupefacente, ma in molti erano consapevoli del problema. Ferrari riprende uno studio del 1985 di Siniscalco (F. Onida, Innovazione, competitività e vincolo energetico, ed. Il Mulino): “anche se l’interpretazione è stata puramente descrittiva,… i risultati ottenuti, insieme ad altre indagini più dettagliate soltanto per prodotti ( che hanno posto in luce una persistente e crescente inferiorità dell’Italia nell’export dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico), hanno tuttavia indotto una nota e diffusa preoccupazione: quella di un Paese specializzato in prodotti maturi, a basso contenuto tecnologico e domanda scarsamente dinamica, sottoposti, per la legge di limitabilità delle tecnologie, alla crescente competizione dei paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo”.
Era il 1985. Pensate a quanto è grave la situazione attuale del Paese.