Landini e Pennacchi recentemente sono tornati a parlare di un modello economico che abbia il lavoro come baricentro. E ciò fa tornare attuali le riflessioni iniziate ai primi anni Ottanta in ambito Cisl ma anche nella Cgil e nella Convenzione dell’Alternativa sul capitale sociale.
Maurizio Landini, il segretario generale della maggiore confederazione sindacale di lavoratori italiana, intervistato da “La Repubblica” il 6 agosto scorso su “qual è il modello di sviluppo che proponete?”, ha risposto: “Un nuovo modello deve mettere al centro il lavoro e mettere al centro gli investimenti su sanità pubblica, istruzione – con obbligo scolastico sino a 18 anni -, deve prevedere asili nido dove non ci sono e formazione permanente. C’è da gestire la transizione ambientale e produttiva, con addio al carbone alle fonti fossili, gestire la manutenzione del territorio e trasformare cultura, turismo e storia d’Italia in elementi di crescita. Vanno fatti ripartire investimenti fisici su infrastrutture, Mezzogiorno e ferrovie ma dobbiamo anche dotarci di una rete digitale che non abbiamo. E serve un ruolo pubblico che indirizzi investimenti ed indichi le priorità a partire dalla mobilità sostenibile”.
Difficilmente si sarebbe potuto dire di più e meglio in poche battute per delineare un orizzonte che richiama chiaramente quello descritto da Laura Pennacchi nel libro collettaneo Lavorare è una parola (Donzelli 2020, pag. 214.€ 15,00). Trattando de “Lo Stato nell’economia e nel Lavoro” e delineando una funzione strategica dello Stato nell’economia, Laura Pennacchi propone “una strategia volta a porre le basi di un nuovo modello economico creando direttamente lavoro” (pag. 234). E caratterizza il nuovo modello come quello “in cui gli interrogativi sul “per chi, cosa, come produrre trovano risposta anche in una innovazione piegata a soddisfare domande sociali”. Coerentemente raccomanda di puntare “senza negare l’importanza delle esportazioni sulla domanda interna e sui consumi collettivi” il che consentirebbe per altro di allargare lo spettro delle produzioni, di aprire nuovi campi di ricerca, di sviluppare nuovi bisogni”. Un modello capace di recuperare l’ispirazione autentica dei Piani di Lavoro del New Deal di Roosevelt e farne “non una misura che si aggiunga alle altre” ma “il baricentro dell’intera politica economica”, il pilastro di una “politica della speranza” opposta ad una “politica della paura”.
Il quadro di questo nuovo modello si completa con l’indicazione – data dallo stesso Landini in un’intervista televisiva solo di qualche giorno fa – del sindacato come presidio e garanzia di libertà nel posto di lavoro e fuori di esso non soltanto per il lavoro dipendente ma per tutto il lavoro.
Quella che viene proposta dalla Cgil dunque, come da chiunque – e sono molti in questi giorni – sostiene la necessità di un modello nuovo dell’economia, è una trasformazione economica e sociale assai profonda del Paese e dello stesso sindacato. Alcuni decenni fa per esprimere la qualità e le dimensioni della trasformazione auspicata si sarebbe parlato di riforme di struttura per non usare un termine più esplicito da cui si rifuggiva perché delle parole si può aver paura.
Comunque lo si chiami bisogna avere e dare contezza della imponente sfida che si ha dinanzi proponendo di cambiare modello di società e di economia.
Il primo interrogativo da porsi riguarda il modello di impresa che occorra per realizzare una politica economica che abbia nel lavoro il suo baricentro. Non voglio addentrarmi nella diatriba sulla possibilità o meno che il capitalismo si riformi e di quanti siano i capitalismi esistenti. Vorrei solo provare a trovare una risposta alla domanda posta. Ritengo che l’impresa votata al profitto ed alla sua massimizzazione non rappresenti il modello adatto e provo a spiegarlo. Il profitto si forma e si calcola per sottrazione dei costi di produzione dai ricavi. Minori sono i costi più alto è il profitto e viceversa. Taluni costi sono pressoché incomprimibili, come quelli delle materie prime, dei semilavorati, delle fonti energetiche, etc. Anche i contributi, le imposte e le tasse lo sarebbero se non si facesse troppo spesso ricorso alla elusione e alla evasione. Il lavoro invece è comprimibile sia perché è sostituibile con le tecnologie, sia perché si può riuscire in vari modi a pagarlo meno. Mi sembra quindi evidente che sia inverosimile che un’impresa votata al profitto possa porre il lavoro al centro della propria organizzazione ed attività
Altrettanto inverosimile sarebbe immaginare un’economia senza imprese volte al profitto, tanto più in democrazia. Se quindi si vuole puntare ad un modello economico che “deve mettere al centro il lavoro” non c’è che ricorrere ad un’economia a doppio binario, ovvero con un duplice sistema di imprese: uno di quelle che assumono la centralità del lavoro e l’altro di quelle che assumano come centrale il profitto. Ambedue connessi in una sorta di coesistenza competitiva.
Una stravaganza ferragostana in tempi di coronavirus? Ma no. Imprese non votate al profitto ci sono sempre state. E ci sono. Soltanto che sono tra loro sconnesse e non hanno rilievo.
Quando nel 1983 cominciava ad essere chiaro che il sistema delle imprese non avrebbe più assicurato alti livelli di occupazione e Pierre Carniti lanciò l’idea del prelievo dello 0,5% dei salari, proprio su di un modello di imprese che assumessero come centralità il lavoro e venne imperniato un progetto messo a punto, nella sede nazionale della Cgil in corso d’Italia a Roma, sotto l’egida del Coopsind, da un gruppo di lavoro coordinato da Silvano Levrero. I lavori iniziarono ai primi di gennaio e si conclusero a maggio di quell’anno. Fu prevista la nascita di un “Fondo di Investimenti dei Lavoratori” sull’esempio dei primi Fondi Comuni di Investimento che si andavano formando in quel periodo. Avrebbe dovuto raccogliere il prelievo su base volontaria dello 0,5% dei salari per finanziare la creazione di nuove imprese autogestite, con le quali apprestare su tutto il territorio nazionale una risposta concreta alla richiesta di occupazione e promuovere un’economia fortemente legata ai singoli territori. Il progetto prevedeva anche apposite strutture tecniche in grado di assicurare la progettazione di imprese e la loro assistenza alle start up. A questo riguardo fu anche riservatamente esplorata la disponibilità dell’Eni a supportare il progetto con lo staff dell’Indeni, una finanziaria di sviluppo che si cimentava con il ricollocamento al lavoro, mediante la creazione di nuove imprese, delle maestranze espulse da aziende private in dissesto.
Il progetto venne trasmesso dal presidente del Coopsind, Mario Zigarella, alla segretria confederale della Cgil nel maggio del 1983 e a settembre di quell’anno fu presentato al Convegno che la Cisl tenne al Castello Giusso di Vico Equense in provincia di Napoli sul tema “Fondo di Solidarietà. Una scelta per il Lavoro e lo Sviluppo”. In quella sede si poté constatare che fra il progetto della Cgil e quello della Cisl c’erano molte coincidenze e la medesima ispirazione.
Nessuno dei due Fondi però ebbe vita, perché sulla prospettiva di allentare la presa del Capitale sul Lavoro prevalsero la ritrosia ad effettuare un prelievo sui salari, ancorché su base volontaria e in misura pressoché irrilevante, e la preoccupazione che il sindacato, esorbitando dalle consuete proprie funzioni di tutela, potesse snaturarsi.
Una nuova occasione per riproporre lo sviluppo di imprese che assumessero la centralità del lavoro si presentò esattamente vent’anni dopo, con la crisi dell’area industriale di Marghera.
Negli ambienti della nuova sinistra si pensò di organizzare un convegno da tenersi a Venezia per dibattere su come affrontare il problema del lavoro nelle aree di crisi. Era la sera dell’8 novembre del 1993 quando, in una stanza della redazione de il manifesto, che all’epoca era in via Tomacelli, venne discusso e approvato da un apposito gruppo di lavoro quella che avrebbe potuto essere la relazione di base del convegno. Si era ripromessa di promuoverlo la “Convenzione per l’Alternativa”. Preso atto del passaggio d’epoca in atto e della problematicità con cui si presentava l’occupazione della “forza-lavoro”, il documento sosteneva che non si sarebbe dovuto più lasciare al capitale “l’iniziativa e l’onere di assorbire la forza-lavoro nei suoi cicli produttivi e distributivi in base alla propria logica, ai propri meccanismi di accumulazione, al proprio modo di produzione, ai propri modelli di consumo”, ma che era giunto il momento in cui “le soluzioni che il capitale non è capace di mettere in campo devono essere perseguite per altre vie, dandosi carico di coprire in proprio, ma con una diversa logica, con diversi modelli, con la propria struttura di valori, gli spazi che l’avversario non è in grado di coprire e di gestire o non ha interesse a farlo. Non si tratta – proseguiva il testo – di sostituirsi all’avversario. Si tratta di passare da una coesistenza subalterna (tra lavoro e capitale) ad una coesistenza competitiva” tra due sistemi di imprese.
Il convegno non si tenne per una sopravvenuta crisi di governo che spostò l’attenzione e le tensioni su altri temi. Ma molte cose erano frattanto avvenute. L’onda del neoliberismo aveva investito anche diversi settori della sinistra. Non pochi di essi nutrirono l’illusione di poter cavalcare la “globalizzazione buona” e promuovere la “globalizzazione dei diritti”. Con il duplice risultato del dissolvimento della sinistra, allontanatasi dall’ottica dei lavoratori, e dell’impoverimento dei diritti del lavoro.
A dimostrazione che l’esigenza di un diverso approccio al tema del lavoro permane, al di là dei cambiamenti di epoca e di fase, l’argomento fu riproposto dodici anni dopo da A.R.C.O., Associazione per la Ricerca e la Comunicazione, guidata dal professor Giovanni Battista Montironi, docente di Sociologia del lavoro all’Università degli Studi di Perugia. Montironi, scomparso purtroppo di recente, aveva curato la ristrutturazione organizzativa dell’Alfa Romeo di Arese mostrando che le nuove tecnologie, se favorivano il Capitale riducendo i suoi fabbisogni di lavoro, fornivano però, al Lavoro, l’occasione di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza in fabbrica. Tanto è vero che la Fiat, appena entrata in possesso dello stabilimento di Arese, eliminò la riorganizzazione di Montironi, pur avendone in precedenze adottato nelle proprie scuole per la formazione dei dirigenti, il testo in cui se ne dava conto.
A.R.C.O. presentò le proprie “Idee per un Programma Politico” il 28 ottobre del 2005, ospite nel salone in via Ostiense 152/b della Comunità di Base di San Paolo, sorta da tempo per la spinta profetica di Giovanni Franzoni, già padre conciliare e abate della Basilica di S.Paolo. Pure le “idee” di A.R.C.O. non ebbero però seguito.
Ultimo in ordine di tempo a rilanciare il tema di un modello di impresa che ponesse il lavoro al centro della sua organizzazione è stato il compianto professore Bruno Amoroso, economista dell’Università di Roskild (Danimarca) con il suo Centro studi Federico Caffè di Roma.
Illustrò il progetto sul numero 2 del 2011 della Rivista Giuridica della Cgil sotto il titolo “Lavoro e Redditi – Dagli Ammortizzatori Sociali a Nuove Forme di Organizzazione Economico Sociale”, nel quale sosteneva che la disoccupazione aveva ormai carattere strutturale e che quindi risultava inadeguato il sistema esistente di ammortizzatori sociali, concepito per far fronte agli effetti transitori della congiuntura economica. Per affrontare la disoccupazione di carattere strutturale doveva quindi porsi mano alla creazione di posti di lavoro e a tal fine si sarebbe dovuto ricorrere a “nuove forme di organizzazione economico sociale”, in altri termini si sarebbe dovuto ricorrere ad un modello di imprese che assumessero la centralità del lavoro e portare a sistema il gran numero di imprese esistenti che non facevano del profitto la propria funzione obiettivo. E sono davvero molte le imprese con questo requisito: sono le imprese sociali, quante costituiscono quello che secondo alcuni sociologi ed economisti costituirebbero il cosiddetto capitalismo molecolare che, secondo altri loro colleghi, di capitalistico avrebbero poco o niente. Sono ancora le organizzazioni produttive promosse dalla imprenditoria che Angelo Detragiache definì popolare, sorta per lo più da “spin-off “di imprese ristrutturatesi esternalizzando fasi del proprio processo produttivo o taluni servizi. Sono un’infinità. Non riescono a fare sistema in mancanza di una politica che le sostenga e, così frammentate, restano spesso subordinate, come anche lo sono molte volte alcune forme di lavoro autonomo, alle imprese di tipo capitalistico, quasi alla pari del lavoro dipendente, senza averne però le garanzie, da esso conquistate con le lotte.
Il progetto prevedeva tra l’altro anche la costituzione di un “Fondo Solidale per l’Occupazione”. Si trattava, insomma, dello stesso impianto, ovviamente aggiornato, del progetto del Coopsind del 1983, che non a caso venne citato nel seminario svoltosi nel salone Di Vittorio della sede nazionale della Cgil per illustrare il progetto. Pure quella volta non vi furono sviluppi.
Ora però l’esigenza di un nuovo modello economico, di cui tanti parlano in questi giorni, anche se chiamandolo secondo me impropriamente di sviluppo, e sulla quale autorevolmente insiste molto Maurizio Landini, rende improcrastinabile che ci si renda conto e ci si responsabilizzi del fatto che un nuovo modello economico richiede imprescindibilmente di sottrarre il Lavoro dalla subordinazione al Capitale, sviluppando e portando a sistema il modello di impresa nel quale il Lavoro come funzione obiettivo si affianchi in una proficua coesistenza competitiva nell’impresa avente il profitto come funzione obiettivo.
Che a promuovere lo sviluppo di “formazioni economico sociali” di questo tipo sia il sindacato o siano altri soggetti sotto la spinta di forze politiche che ritrovino nel Lavoro il loro principale riferimento, o ambedue, non importa. Un dato, però, appare certo: senza che il Lavoro entri nello scenario economico come soggetto non subalterno ad alcuno, non vi sarà alcuna riconversione né ambientale né sociale di alcuna economia.