La rotta d’Italia. Le tasse sulla casa al centro della campagna elettorale. Un ritornello che oscura le vere emergenze del momento. Ma quanti giovani hanno la casa e pagano l’Imu?
Con chi parliamo quando parliamo di Imu? Il ritorno del settantaseienne Berlusconi, alla sua sesta campagna elettorale, ha portato con sé tra le altre cose anche il gran ritorno della questione delle tasse sulla casa in proprietà. In molti lo hanno seguito, e così il discorso pubblico si è concentrato sul numero più classico dell’anziano prestigiatore, che prova così a risalire la china ripetendo il colpaccio che già gli riuscì nel 2006. Nel terrore generale: la tassa sulla casa riguarda tutti si dice; perché quasi tutti sono proprietari in Italia, si aggiunge. Dimenticando vari dati di realtà, e soprattutto dimenticando i giovani (retoricamente messi al centro di tutto fino a pochi giorni prima), che è molto difficile che siano appena usciti dall’angoscia della seconda rata dell’Imu, semplicemente perché una casa non ce l’hanno. Lasciando stare quelli che vivono con i genitori, i dati di Bankitalia ci dicono che il 40% delle famiglie con capofamiglia sotto i 34 anni vive in affitto, e il 13% ad altro titolo diverso dalla proprietà. Allora: con chi parliamo quando parliamo di Imu?
L’età delle case
La tabellina che segue è contenuta in uno studio delle Finanze e dell’Agenzia del territorio, dedicato a “Gli immobili in Italia”, che tra le tante cose ha anche un’analisi della proprietà delle case dal punto di vista anagrafico.
Oltre a confermare quel che tutti i politici sanno e usano – quando incontri un cittadino che deve darti il suo voto, è molto facile che sia uno che deve pagare, o ha appena pagato, la tassa sulla casa – lo studio delle Finanze ci dice che però cotanto interesse è concentrato nella fascia d’età matura.
Vediamo i numeri. Quelli generali: in Italia ci sono 41,5 milioni di contribuenti, e il 59% di loro (26,4 milioni) è proprietario di un immobile. È in questo universo che lo studio delle Finanze, relativo ai dati fiscali del 2010, fa entrare in ballo anche la variabile dell’età. Partendo dai giovanissimi, tra i quali ovviamente la proprietà immobiliare è una rarità: tra coloro che hanno meno di 20 anni, ci sono solo 50.398 proprietari di immobili: gli under 20 sono lo 0,2% di tutti i contribuenti proprietari, mentre sono il 3% della popolazione. Salendo di un decennio, troviamo 837.158, tra coloro che hanno un’età compresa tra i 21 e i 30; confrontando questi dati con quelli Istat sulla popolazione vediamo che tra i 21 e i 30 anni si colloca l’11,1% della popolazione ma solo il 3,5% dei proprietari. Salendo invece con l’età, la proprietà della casa si diffonde: tra i 51 e i 70 anni, abbiamo il 24% della popolazione ma il 37,7% dei proprietari; e gli ultrasettantenni sono il 14,1% degli italiani, ma ben il 23% dei proprietari. Questo per mostrare – o meglio, tornare a raccontare, attraverso i numeri – una cosa in sé abbastanza ovvia: la casa si compra dopo aver un po’ lavorato e risparmiato, e questo vale soprattutto per quelle fasce sociali che non godono di patrimoni familiari che si tramandano. Dunque, il luogo comune per cui “in Italia tutti hanno una casa” andrebbe ridimensionato, smontato e analizzato pezzo per pezzo. Ridimensionato, perché non è del tutto vero neanche in linea generale: anche dopo i vari boom della corsa agli immobili, dagli anni ’60 del miracolo economico e dei palazzinari, ai ’70 della grande inflazione e del bene-rifugio, agli ’80-’90 del “tutti proprietari!”, ai 2000 della finanza e dei mutui facili; anche dopo tutto ciò, nella media italiana la proprietà della casa di abitazione riguarda i due terzi delle famiglie (dati Bankitalia, in questo caso). Ma tale quota scende se si va a smontare il dato anche dal punto di vista dell’età. Lo dimostrano i dati del fisco (appena citati) sui contribuenti, e quelli della Banca d’Italia sui bilanci familiari: che ci dicono invece che, al di sotto dei 34 anni, l’affitto è una condizione che riguarda il 38,7% delle famiglie. La proprietà riguarda il 47,8% delle famiglie “giovani”. Un altro 13,5% vive nella abitazione di residenza “ad altro titolo”, diverso da proprietà o affitto. Dunque, quando si parla per ore in tv o su un giornale di Imu e affini, è più che probabile che i giovani all’ascolto (ammesso che ce ne siano) cambino canale, voltino pagina o clicchino su un altro contenuto. Forse resterebbero, se si parlasse di stage, contratti cocopro, partite Iva, lavoro, maternità, part time…
Dalla casa al lavoro
Attenzione. Con questo non si vuol dire che allora è giusto stangare le case e i loro proprietari. L’Imu – così com’è scritta – è una somma di ingiustizie, ed è una somma ingiustizia. A partire dalla bugia di base che la alimenta, quella sul valore degli immobili: finché non si aggiornerà il catasto e non si porteranno i valori reali dentro quelli fiscali (operazione tecnicamente fattibile, ma evitata con cura da governi politici e tecnici), sarà impossibile conciliare qualsiasi imposta sulle case con gli articoli 3 (eguaglianza) e 53 (capacità contributiva) della nostra Costituzione. E poi, bisognerebbe mettere l’Imu dentro una patrimoniale vera, su tutte le fortune, ed esentare le fasce di reddito più povere, e coloro che sull’immobile stanno ancora pagando il mutuo prima casa (tra i quali sicuramente ci sono tutti quei giovani proprietari che hanno appena comprato, magari negli anni nei quali ancora potevano accedere a un prestito in banca). Dunque, a chi pensa di ri-vincere (o di non perdere) le elezioni cavalcando di nuovo l’abolizione della tassa sulla casa, bisognerebbe rispondere a muso duro che quella tassa non va tolta ma va resa giusta. Ma, tutto ciò precisato, resta il fatto che una bella e progressiva riforma di questo tipo non cambierebbe di una virgola – se non in termini di un po’ di risorse pubbliche recuperate – la condizione dei veri protagonisti della crisi, i giovani. I senza-casa e senza-lavoro. Quelli che hanno pagato prima e di più per la gelata dell’economia: vedendo i loro aleatori contratti di lavoro saltare per aria, o trasformarsi, o inabissarsi per ricomparire in tempi migliori; e poi trovandosi alle prese con la grande riforma del mercato del lavoro, che non ha portato una maggior copertura dalle incertezze e dagli alti e bassi del lavoro e della vita (niente in termini di copertura tra un contratto e l’altro, salario minimo, giusti compensi, ammortizzatori per malattia, maternità etc), ma ha complicato notevolmente la vita a tutti tranne che ai consulenti del lavoro, in slalom tra i nuovi cavilli. Secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è al 37,1%, solo in Spagna va peggio; e tra i 15 e i 24 anni abbiamo 641.000 ragazzi in cerca di lavoro: il 10,6% del totale delle persone in quella fascia d’età. Tra i 18 e i 29 anni è occupato il 45,8% dei maschi e il 33,7% delle donne (si legga questo utile riepilogo numerico della Repubblica degli stagisti).
Nonostante la gravità e pesantezza di questi numeri, resta sostanzialmente fuori dalla contesa elettorale il destino di questa generazione, o forse di due-tre generazioni maturate a cavallo tra la fine degli anni ’90 e il nostro presente, lanciate nel mercato del lavoro dalla legislazione più flessibile che abbiamo mai avuto, prime vittime sacrificali della crisi economica più duro dall’epoca dell'(altra) grande depressione. Si dovrebbe parlare di come farli entrare, o rientrare, al lavoro: di un piano, una domanda, una linea – che non sia il puro e ipocrita: rilanciamo l’economia, il lavoro arriverà. Sia perché si dovrebbe dire come rilanciare l’economia, che perché, in ogni caso, resta un problema di inserimento, o re-inserimento, di persone segnate e piagate dalla crisi che hanno subìto, che lo abbiano fatto salendo su un tetto o lavorando nell’ombra gratuitamente per un centro di ricerca, uno studio professionale, una testata tv. Di tutto ciò si parla poco o niente, i “giovani”, buoni per gli slogan e le dichiarazioni solenni, in campagna elettorale tirano pochissimo. Meglio la vecchia pantomima dell’Ici-Imu, gli spauracchi della patrimoniale e gli allarmi sul ceto medio tartassato. Veri evergreen, riportati sulle scene da attori consumati e astuti; ma che a volte non si accorgono che in platea non c’è più nessuno.