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La caduta del potere d’acquisto dei salari in Italia

Sono necessarie azioni immediate ed energiche per la difesa del potere di acquisto dei salari, a partire dal rinnovo dei contratti collettivi e dall’introduzione di un salario minimo indicizzato all’inflazione. A cominciare dai circa tre milioni di lavoratori che in Italia percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro.

Dal 2022 la ripresa dell’inflazione ha aggravato la caduta dei salari reali in Europa. L’impennata dei prezzi ha eroso il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e ha approfondito le disuguaglianze salariali in tutti i Paesi europei. In Italia gli effetti negativi dell’inflazione su redditi e salari sono stati particolarmente forti: l’inflazione è stata più alta che altrove e i salari reali sono diminuiti più della media europea. 

Il forte calo dei salari reali in Italia è dipeso dunque dall’aumento del costo della vita – come dimostra l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) che è cresciuto nell’ultimo anno e mezzo più rapidamente rispetto al resto d’Europa – ma soprattutto dalla lenta dinamica delle retribuzioni nominali per ora lavorata. 

Come ha sottolineato l’Istat pochi giorni fa, nonostante la dinamica tendenziale delle retribuzioni contrattuali abbia segnato un miglioramento nell’ultimo anno – a giugno 2023 la crescita su base annua è stata del +3,1% – e l’inflazione negli ultimi mesi abbia iniziato a rallentare, la distanza fra dinamica dei prezzi (IPCA) e quella delle retribuzioni supera ancora i sei punti percentuali nei primi due trimestri del 2023. Non vi è stato dunque un recupero del potere d’acquisto dei salari.

Anche l’OCSE nel recente Economic Outlook prevede un incremento dei salari del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, a fronte però di una inflazione che è prevista rimanere ad un livello di circa il 6,4% nel 2023 e del 3% nel 2024. Dunque, a meno che non vengano messe in atto politiche specifiche o non si verifichino cambiamenti nel contesto delle relazioni industriali, nel 2023 i lavoratori italiani continueranno a sperimentare un’ulteriore caduta del potere d’acquisto dei loro salari.

Inoltre, sempre secondo l’Istat, i contratti in attesa di rinnovo a fine giugno 2023 sono 31 e coinvolgono circa 6,7 milioni di dipendenti. Vale a dire il  53,9% dei lavoratori dipendenti è ancora in attesa di rinnovo e per loro la caduta dei salari reali sarà ancora più consistente.

Come abbiamo sottolineato in un recente contributo – “L’inflazione in Italia. Cause, conseguenze, politiche”  in uscita ad ottobre per Carocci – in Italia i salari reali negoziati hanno reagito molto lentamente, e solo in misura limitata, all’ondata inflazionistica. Sebbene in linea di principio la contrattazione collettiva dovrebbe contribuire a mitigare le perdite del potere d’acquisto dei salari, e a garantire una distribuzione più equilibrata del costo dell’inflazione tra imprese e lavoratori, nel corso del 2022 l’onere maggiore si è scaricato sul lavoro dipendente.

I redditi da lavoro hanno contribuito solo marginalmente all’aumento dell’inflazione in Italia, in linea con quanto già sottolineato per l’Europa dalla Banca Centrale Europea. Nel corso del 2022 l’inflazione è stata “alimentata” principalmente dalla crescita dei profitti unitari. Ciò implica che, nel contesto attuale, il temuto rischio dell’attivazione di una “spirale prezzi-salari” sia di fatto molto limitato.

Le cause principali della più recente fase inflazionistica vanno ricercate piuttosto nel modo in cui le imprese sono state in grado di trasferire la crescita dei prezzi dei prodotti energetici e di altri input intermedi sui prezzi di vendita.

Le conseguenze dell’inflazione in Italia sono state più gravi che in altri Paesi anche a causa delle debolezze strutturali del suo mercato del lavoro, caratterizzato da un’ampia quota di posti di lavoro non standard, a breve termine e da livelli salariali reali medi che erano molto bassi (rispetto alla media europea) già prima della recente ondata inflazionistica e in significativa flessione da più di quindici anni. Negli ultimi tre anni i redditi da lavoro dipendente hanno subito comunque un ennesimo durissimo colpo: alla fine del 2022 i salari reali erano inferiori del 7,5% rispetto a prima della pandemia. 

Questa flessione dei salari reali ha ampliato in modo significativo il bacino dei “lavoratori poveri” e la quota di famiglie che si trova al di sotto della soglia di povertà assoluta e relativa. Come prevedibile, l’inflazione ha anche ampliato le disuguaglianze tra le classi sociali e all’interno della forza lavoro. Le misure pubbliche di mitigazione, per quanto consistenti, non sono riuscite a contenere la perdita di potere d’acquisto dei redditi medio-bassi e ad invertire il processo di polarizzazione sociale in atto da decenni. 

Si rendono quindi necessarie azioni immediate ed energiche per la difesa del potere di acquisto dei salari, a partire dal rinnovo dei contratti collettivi e l’introduzione di un salario minimo indicizzato all’inflazione. Quest’ultimo, pur essendo una misura parziale e non risolutiva, potrebbe comunque contribuire a recuperare almeno una parte del potere d’acquisto perso dalla componente più debole della forza lavoro, ovvero quei circa tre milioni di lavoratori che in Italia percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro.

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Valeria Cirillo è professoressa di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari “Aldo Moro”, è docente al dottorato in Economia politica della “Sapienza” Università di Roma, ed è associate editor dell’Italian Economic Journal (Springer).

Rinaldo Evangelista è professore di Politica economica all’Università di Camerino, docente di Economia industriale alla Luiss “Guido Carli” e visiting Research fellow al Birkbeck Centre for Innovation Management Research, dell’Università di Londra.

Articolo pubblicato su il manifesto