Se sarà gestita rapidamente l’esperienza della Brexit potrà aiutare un esito positivo della costruzione europea e la possibilità che tutti possano partecipare ai suoi vantaggi
La Brexit sta evidenziando le conseguenze di aver affidato la costruzione europea all’attivismo degli apprendisti stregoni di tutte le risme. Il giovane Cameron, da sempre favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, è riuscito nell’intento, ma senza rendersene conto e quando non voleva, avendo organizzato un referendum solo in funzione della sua carriera politica e puntando alla vittoria del remain: siamo all’opportunismo controproducente (!) dei politici rampanti. Adesso tutto il mondo è costretto, in varia misura, a fare i conti con le conseguenze di cotanta sapienza politica che ha portato ad una decisione di dimensioni storiche (almeno per l’Europa), presa dalla maggioranza degli elettori anziani della provincia inglese, gallese e della Cornovaglia (che annualmente usufruiscono di ingenti trasferimenti dall’UE) contro la maggioranza dell’area di Londra, della Scozia, dell’Irlanda del Nord e delle persone più istruite e giovani di tutto il Regno Unito: tutto questo c’entra poco con la democrazia, è solo una sua strumentalizzazione caricaturale. L’euroscetticismo inglese è stato alimentato dal prevalere di sentimenti miopi conservatori e populisti che adesso dovranno bruscamente rendersi conto non solo – con circa un secolo di ritardo – della fine dell’impero britannico, ma delle conseguenze negative della Brexit sui residui aspetti di centralità finanziaria e commerciale dell’economia inglese e sulla stessa sopravvivenza del Regno Unito.
Miopia, nazionalismi, populismi e scarsa consapevolezza della posta in gioco con il progetto d’unificazione europea sono diffusi anche nel resto dell’Europa; questi atteggiamenti sono declinati in base alle peggiori specificità nazionali, ma hanno in comune la causa principale che li sta alimentando costituita dalle modalità inique e controproducenti prevalenti nella costruzione dell’UE.
L’analisi degli errori di visione politica, economica e sociale e della parzialità degli interessi che hanno dominato l’accelerazione della costruzione europea avvenuta negli anni ’90 e che tuttora la guidano è oramai consolidata e trova una conferma concreta nelle modalità più virulente che hanno caratterizzato il decorso della crisi globale nel nostro continente rispetto al resto del mondo e, in particolare, agli Stati Uniti dove pure la crisi è esplosa. Ma la connessione tra la contrarietà all’Unione europea che alimenta le spinte ad abbandonarla e le critiche al modo in cui essa è stata concepita e continua ad essere organizzata implica una illogica e pericolosa sovrapposizione di piani di ragionamento. In un mondo caratterizzato da sistemi economici nazionali, affermati ed emergenti, che hanno dimensioni multiple rispetto a quelli dei più grandi paesi europei, nel quale la globalizzazione consente ai mercati e alle forze speculative una sfera d’azione molto superiore anche a quella degli stati più ricchi e potenti, il progetto dell’UE era e rimane la migliore risposta non solo sul piano quantitativo dell’interesse economico dei cittadini europei, ma anche per consentire una più efficace interazione tra le istanze individuali espresse nei mercati e quelle collettive rappresentate dalle istituzioni. Tra le cause strutturali della crisi globale c’è anche questa evoluzione asimmetrica delle sfere d’influenza dei mercati e delle istituzioni che ha pregiudicato la possibilità delle seconde di interagire positivamente con lo strapotere fallimentare dei primi. L’Unione europea corrisponde ad esigenze storiche e geografiche complessive il cui equilibrio, finora affidato ai nazionalismi, è stato per lo più perseguito con le guerre; quelle esigenze sarebbero concretamente e sostanzialmente favorite dalla maggiore possibilità che l’UE ha, a livello continentale, di difendere e conciliare gli interessi collettivi rispetto a quelli individuali e di salvaguardare la dimensione democratica delle relazioni economiche e sociali. La cattiva realizzazione fin qui avuta di questo progetto spiega la disaffezione popolare nei suoi confronti che si è già manifestata anche in altri referendum come quelli sul progetto di varare una Costituzione europea, ma non giustifica il cortocircuito che porta a “buttare il bambino insieme all’acqua sporca”. La buona politica dovrebbe servire proprio ad evitare queste tragiche confusioni alimentate da opportunismi e populismi, interessi parziali e regressivi.
La Gran Bretagna è parte rilevante della storia, della geografia e della cultura europea; in sua mancanza – o anche solo dell’Inghilterra – l’Unione europea ne risulterà depotenziata; ma la sua presenza nel progetto europeo è stata caratterizzata più dall’intento di frenarlo che di spingerlo in qualsivoglia direzione. La minaccia della Brexit è stato l’ennesimo tentativo in quella direzione, oltre che di migliorare le condizioni della partecipazione britannica; ma il gioco è sfuggito di mano ai suoi stessi ideatori che adesso si troveranno a pagarne le conseguenze (purtroppo, non solo loro). L’esito imprevisto, se da un lato può alimentare le spinte centrifughe nazionalistiche più estreme, insensate e pericolose presenti negli altri paesi, sicuramente elimina un forte elemento di freno al progetto unitario e mostrerà nei fatti le difficoltà e i costi per chi esce anche solo dall’Unione (e non pure dall’Euro, che implicherebbe incognite, costi e difficoltà ben maggiori). Cambiare rotta non sarà un processo semplice, ma un esito positivo della costruzione europea e la possibilità che tutti possano partecipare ai suoi vantaggi implica una presa di coscienza della impraticabilità, oltre che dell’iniquità, della strada finora percorsa; l’esperienza della Brexit potrà aiutare se sarà gestita rapidamente e nell’interesse generale della costruzione europea.