Pubblichiamo la prima parte di uno studio di Armanda Cetrulo sulla generazione di precari di 15-30 anni che l’Italia sta bellamente sacrificando
La scorsa settimana è stato presentato il Rapporto annuale (1) dell’Istat sulla situazione economica del nostro paese. La sua pubblicazione ha scatenato numerosi dibattiti nei giorni immediatamente successivi per poi finire velocemente nel dimenticatoio, come spesso accade ormai sui temi d’economia. I dati più interessanti presenti nel Rapporto sono sicuramente quelli riguardanti il mercato del lavoro e la situazione occupazionale giovanile.
Per l’Italia, la crisi ha infatti messo in evidenza i suoi nodi più problematici, dalle forti disparità territoriali alle difficoltà di inserimento dei giovani, dalla segmentazione tra italiani e stranieri, tra uomini e donne, alla crescita del tasso di inattività. Ciò nonostante, il nostro paese continua a caratterizzarsi per un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea (al punto da spingere il ministro dell’Economia a dichiarare (2) addirittura che l’Italia “offre molti posti di lavoro e il problema va rintracciato nell’offerta più che nella domanda”).
Il dato della disoccupazione non può però essere letto da solo (3), ma va accompagnato da quello relativo all’inattività, considerevolmente più elevato rispetto alla media europea.
Tale aspetto non va trascurato, poiché come vedremo la crescita esponenziale degli inattivi tra i più giovani rappresenta un dato allarmante che compromette il futuro dell’Italia.
Biennio della crisi: uno sguardo europeo
In Europa la crescita dell’occupazione si è interrotta nel secondo semestre del 2008, registrando complessivamente nel biennio 2009-2010 una riduzione di 5.2 milioni di unità (di cui 4 milioni solo nel 2009) e ha iniziato la sua ripresa nella metà del 2010. Il numero dei disoccupati è passato da 16,6 milioni nel 2008 a 22,9 milioni nel 2010 (di cui un quinto spagnoli).
Italia
In un contesto così difficile, superficialmente sembra quasi che l’Italia se la cavi meglio degli altri con un tasso di disoccupazione dell’8.4% inferiore a quello medio europeo del 9.3%.
Ma a influenzare tale valore è un altro tasso, quello di inattività che raggiunge nel nostro paese il 37,8%, quasi 9 punti percentuali in più rispetto a quello medio europeo (29%).
Ad allarmare maggiormente è la forte prevalenza dei più giovani tra gli inattivi, segno che un elevato senso di scoraggiamento si sta diffondendo tra chi si affaccia oggi sul mondo del lavoro.
L’effetto della crisi è stato senza dubbio dirompente: nel biennio, trascurando il peso dell’economia sommersa, il numero degli occupati è diminuito di 532mila unità, in particolare nel Sud Italia 280mila persone hanno perso il posto di lavoro, al Nord 228mila. Nel complesso, i divari territoriali all’interno del paese si sono notevolmente aggravati, basti pensare che oggi il tasso di occupazione al Nord è di oltre 20 punti percentuali più elevato di quello al Sud.
Ad essere colpiti sono stati sia gli uomini che le donne, anche se di fatto le possibilità lavorative per le donne risultano in costante peggioramento (per esempio, circa 800mila donne madri hanno dichiarato di essere state licenziate o costrette a dimettersi in occasione di una gravidanza).
Ma a subire in assoluto la maggiore caduta in termini occupazionali sono stati proprio i giovani italiani nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni che in 501mila hanno perso il lavoro nel biennio 2009-2010. Tale valore appare incredibile se lo si confronta con il dato relativo all’intera popolazione e in effetti, come l’Istat sottolinea, in termini relativi la flessione dell’occupazione giovanile è stata, sia nel 2009 che nel 2010, oltre cinque volte più elevata di quella complessiva! Il peso della crisi si è riversato quasi completamente sulle giovani generazioni.
In effetti, dopo una crescita sostenuta dell’occupazione, prevalentemente precaria, a partire dalla metà del 2008 le prospettive occupazionali offerte ai giovani sono man mano peggiorate al punto da raggiungere il picco massimo di disoccupazione giovanile del 28,9% nel novembre 2010, quando era occupato circa un giovane ogni 2 al Nord, meno di 3 ogni 10 nel Mezzogiorno.
Vi sono in particolare alcuni aspetti che è necessario approfondire in merito al persistente calo dell’occupazione giovanile.
1) Composizione della disoccupazione: differenze di genere e distribuzione territoriale
2) Istruzione e contratti precari
Quando nel gennaio 2011 il ministro della gioventù Meloni presentò il suo “Piano per l’occupazione giovanile” (4), spiegò che una delle cause principali dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile andava rintracciata in una certa “inattitudine all’umiltà” dei giovani italiani, disinteressati a svolgere quei lavori manuali così fortemente richiesti dalle imprese.
Partendo dal presupposto, logico e razionale, che sia più che legittimo per un giovane aspirare a un elevato livello di formazione personale e professionale, al fine di raggiungere una migliore condizione di vita, è necessario però ammettere un dato. Il sistema economico italiano appare oggi più che mai incapace di dare spazio ai giovani laureati altamente qualificati.
L’ultimo rapporto Alma Laurea (5) parla di un forte aumento della disoccupazione tra i giovani laureati di I e II livello e sottolinea il paradosso per cui i laureati di II livello (laurea specialistica) risultano quasi svantaggiati dalla loro eccessiva preparazione.
In effetti il grado di istruzione non sembra aver protetto i giovani dalla crisi. La partecipazione al mondo del lavoro è calata in misura maggiore per i laureati rispetto ai giovani diplomati e a essere colpite insieme alle professioni operaie e del settore industriale, sono state proprio le professioni tecniche più qualificate (ingegneri, architetti, medici, ricercatori); mentre a registrare un aumento dell’occupazione sono stati esclusivamente i settori della ristorazione e gli esercizi commerciali.
Per comprendere come mai l’istruzione abbia progressivamente smesso di essere un mezzo capace di garantire migliori prospettive occupazionali, è necessario considerare le riforme del lavoro susseguitesi dal 1993 in poi.
È ormai chiaro che l’introduzione della “flessibilità”, dopo aver generato un iniziale aumento dell’occupazione, ha determinato, tra gli altri effetti, un cambiamento nelle scelte imprenditoriali e produttive delle imprese italiane, le quali hanno deciso di abbattere i costi di produzione domandando lavoro meno qualificato e più conveniente e tagliando il più possibile gli investimenti in capitale e tecnologia.
Va poi precisato che proprio quei contratti precari che avevano fatto registrare variazioni positive dell’occupazione, considerati da alcuni la prova evidente che la causa della disoccupazione stava nell’eccessiva regolamentazione del mercato del lavoro, sono stati i primi in assoluto a essere spazzati via dalla crisi, seguendo l’ effetto “luna di miele” (6)
Le difficoltà incontrate dai giovani laureati indicano inoltre l’esistenza del rischio elevato di ricoprire posizioni occupazionali qualitativamente inferiori rispetto al proprio titolo di studio.
In effetti analisi di diversi autori (7), hanno dimostrato che il lavoro precario comporta un rischio significativamente più elevato di sovraqualificazione rispetto a un lavoro a tempo indeterminato. È più probabile che un giovane al suo primo impiego si ritrovi a svolgere un lavoro dequalificato, al punto che in alcuni casi risulta razionalmente preferibile rifiutare un lavoro precario che potrebbe condizionare negativamente la propria carriera professionale e personale, e aspettare di trovare invece un lavoro a tempo indeterminato!
Infatti, non è assolutamente detto che una volta ottenuto un lavoro precario, sia facile raggiungere con il tempo un’occupazione migliore: ci troviamo di fronte a una vera e propria trappola della precarietà, in un contesto in cui la possibilità per un giovane di passare da un lavoro atipico a uno standard diminuisce continuamente, nel 2009 per esempio ogni 100 giovani atipici solo 16 ottenevano un posto fisso l’anno successivo.
L’Italia oggi ha l’obbligo di scegliere in che modo competere con le altre economie industrializzate: può decidere di perseguire la strada della compressione dei costi di produzione (a partire dai salari, già tra i più bassi d’Europa) e della scarsa innovazione in capitale fisico e sociale; oppure, investire in ricerca e sviluppo, avviare un nuovo piano industriale e adottare interventi strutturali di politica economica.
Ma, considerate le dichiarazioni dei ministri Meloni e Sacconi, la strada intrapresa dal governo non appare esattamente quella economicamente e socialmente più giusta.
(continua)
(1) www.istat.it (2) www.repubblica.it (3) Il tasso di disoccupazione si ottiene infatti dal rapporto tra i disoccupati e il totale della Forza Lavoro. I disoccupati comprendono le persone in età da lavoro che hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle 4settimane precedenti a quella di riferimento e che sono disponibili a lavorare nelle 2 settimane successive; oppure coloro che inizieranno un lavoro entro 3 mesi. La forze lavoro è data dalla somma di disoccupati e occupati. Appare chiaro quindi, che dato l’elevato tasso di inattività (persone che non cercano attivamente un lavoro e che non rientrano quindi nella forza lavoro) il tasso di disoccupazione risulti notevolmente sottostimato. (4) www.repubblica.it su questo tema: www.economiaepolitica.it (5) Al seguente indirizzo è possibile trovare la documentazione d’interesse www.almalaurea.it (6) Boeri T.,Garibaldi P(2007) “Two tire reforms of Employment Protection: A Honeymoon Effect”. Collegio Carlo Alberto.Working Paper No.37 (7) Paolo Barbieri e Stefani Scherer (2007) “Vite svendute. Uno sguardo analitico sulla costruzione sociale delle prossime generazioni di outsider.”