Lo Stato dell’economia/In Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale. L’intervento pubblico oggi dovrebbe giocarsi intorno ai problemi climatici ma anche a quelli più sociali tipo i problemi demografici legati all’invecchiamento della popolazione. Intervista a Mariana Mazzucato
Economista, docente di Scienza e tecnologia all’Università del Sussex, Mariana Mazzucato era in Italia lunedì scorso per presentare, in un convegno organizzato all’Università La Sapienza, il suo ultimo libro, Lo Stato innovatore, appena tradotto da Laterza.
Nel suo libro lei ripropone il tema dell’azione pubblica in campo economico. Un’idea di Stato dunque visto non solo come arbitro dei conflitti tra privati, ma attivo e trasformativo. Può farci qualche esempio?
Il vecchio modo di pensare lo Stato come soggetto che interviene per affrontare i fallimenti del mercato è sbagliato.
Il punto sostanziale del libro è che per essere attivo lo Stato deve avere un approccio giusto – quello che definisco un framework mission oriented, che definisce gli obiettivi di lungo termine, concentra gli sforzi di ricerca, stimola gli investimenti pubblici e privati e apre la strada a nuovi prodotti – altrimenti si può essere attivi, come avviene in Inghilterra, ma solo limitando gli investimenti a politiche di incentivi o di detassazione.
Uno degli esempi più calzanti è quello dell’I Phone: le tecnologie per produrlo sono state ideate e finanziate dal pubblico, tramite ricerca di base ma anche ricerca applicata, e la stessa società, in questo caso la Apple, ha ricevuto finanziamenti diretti dallo Stato americano.
Lo stesso vale oggi anche per la Tesla Motors di Elon Musk, il nuovo eroe di Silicon Valley. Senza il prestito garantito di 500 milioni di dollari di Obama la nuova Tesla non sarebbe nata.
In questo senso gli Usa non sono un modello di mercato ma di Stato attivo, che agisce attraverso investimenti diretti e non solo tramite incentivi.
Nel libro però non mi limito a parlare solo dello Stato. Lo Stato può anche agire insieme a un privato impegnato a lungo termine, spesso è auspicabile che lo faccia.
Il problema è che oggi l’impresa privata è sempre più mirata verso il corto periodo – e spesso più attenta ai prezzi delle azioni che al valore creato nel lungo termine. Per questo parlo del bisogno di costruire un «eco-sistema» pubblico privato più simbiotico e meno parassitico.
Buona parte delle analisi del suo libro sono basate su esempi che provengono dagli Usa. Quali lezioni possiamo trarne per l’Italia?
Parlo di Usa perchè in Europa si parla spesso degli Stati uniti come di un modello da copiare senza capire veramente quello che là succede. In Europa ci sono paesi – Danimarca, Finlandia o Germania – che hanno un quadro di riferimento per l’azione pubblica molto diverso da quello di Italia e Inghilterra.
In Italia c’è la tendenza a pensare che sia sufficiente facilitare le cose, alleggerire la burocrazia o intervenire sulla tassazione, per convincere le imprese a innovare.
L’Inghilterra ha una politica industriale più attiva di quella italiana ma anche lì il governo tende a prestare troppa attenzione alle richieste delle imprese di intervenire sulla tassazione, anche se poi questo rende molto difficile finanziare gli investimenti. Questo rapporto parassitico tra industrie e governi fa sì che l’industria investe meno e i governi sono sempre meno capaci di raccogliere i soldi che poi servono all’innovazione.
Il caso degli Usa dimostra invece che l’impresa privata investe – anche la Fiat nella Chrysler – quando sente che ci sono grosse opportunità di mercato. Non a caso storicamente negli Usa gli investimenti sono stati fatti quando le tasse erano più alte.
Restando in Europa, il fiscal compact non rende impossibile per gli Stati qualunque politica di investimenti?
Innanzitutto contro il fiscal compact bisogna fare una battaglia enorme. Il problema non è che i Paesi hanno speso troppo ma troppo poco: i dati Ocse infatti ci mostrano che Portogallo, Italia, Grecia e Spagna sono i Paesi che spendono di meno in ricerca e sviluppo. In Italia prima della crisi il deficit era più basso di quello tedesco, il rapporto debito-Pil cresce perchè il denominatore non sta crescendo. Questo non vuol dire che va tutto bene, ma finchè questi Paesi non trovano il modo di spendere in tutto quello che fa crescere la produttività (capitale umano, ricerca e sviluppo etc) e finchè le stesse imprese spendono poco, non cambierà niente.
E il problema è che il fiscal compact non li lascia spendere. E arriviamo al secondo punto: la spesa in ricerca e sviluppo non può essere computata come spesa corrente ma come «capital expenditures», come farebbe il privato. In questo senso è fondamentale che l’Europa si dia regole unificate su come calcolare il debito.
Infine: è necessario che anche l’Europa si dia un altro approccio che giustifichi la spesa in investimenti. E non mi riferisco solo a una politica industriale di settore ma a obiettivi che trainino e direzionino questi investimenti.
Quando si parla di Stato e di pubblico in Italia, però, è inevitabile parlare anche di corruzione.
In Italia c’è un enorme problema. Ma il punto non è solo la corruzione: ci sono tanti Paesi non corrotti che non crescono.
Certo, serve un impegno enorme per riformare lo Stato, ma le «riforme strutturali» intraprese da Monti e Renzi devono essere accompagnate da un serio programma di investimenti. Invece, quando si parla di riforme strutturali, si pensa sempre alla deregolamentazione del mercato del lavoro o alle liberalizzazioni, ma nulla di tutto questo ha a che fare con una politica di investimenti.
Telecom, per fare un esempio, appena privatizzata ha tagliato la ricerca e lo sviluppo. Quindi il punto vero è che tipo di Stato e che tipo di privato vogliamo.
Lei parla nel suo libro di traiettorie dell’innovazione a lungo termine. In quali settori, per esempio, in Europa?
L’intervento pubblico oggi dovrebbe giocarsi intorno ai problemi climatici ma anche a quelli più sociali tipo i problemi demografici legati all’invecchiamento della popolazione, soprattutto in materia di cura, di vivere bene.
Lo Stato trasformativo dovrebbe uscire dai confini del privato, e penso ad esempio al settore dei medicinali e investire sul lifestyle, sul come vivere in maniera più intelligente. Le energie rinnovabili dovrebbero essere approcciate come un portfolio, nel senso che gli Stati dovrebbero investire in diversi tipi di energia. L’innovazione non ha solo un «tasso» ma anche una «direzione».
E c’è anche bisogno di una politica della domanda, in modo che le nuove tecnologie si diffondano. Come la «suburbanizzazione» è stato un risultato di una politica intorno alla rivoluzione della «produzione di massa», oggi dovrebbero esserci politiche che rendono più profittevoli le scelte «verdi» sia per i produttori che per i consumatori. Una politica della domanda, un orientamento, è fondamentale e pensare che la faccia il mercato è, come dire, un po’ naive.