La manovra del governo tende a migliorare solo alcune condizioni d’offerta del nostro settore produttivo senza curarsi della sua decrescente capacità innovativa che è alla base del nostro declino
La politica economica dell’illusionismo praticata dal governo Renzi fin dal suo insediamento viene confermata e accentuata dalla legge di stabilità. L’evoluzione in corso della crisi globale – e specificamente di quella europea – da conto di un contesto internazionale niente affatto favorevole a tentativi approssimati come quelli messi in opera dal nostro governo per curare una situazione particolarmente grave come quella italiana.
L’errore di fondo della manovra governativa sta nel reiterare un approccio inadeguato e incongruente alla natura della crisi. Esso tende a migliorare solo alcune condizioni d’offerta del nostro settore produttivo – limitandosi a ridurre il costo del lavoro ed ad aumentarne la flessibilità – senza curarsi della sua decrescente capacità innovativa che è alla base del nostro declino (non solo economico); invece non affronta in modo efficace il problema, che attualmente è il più urgente, costituito dalle carenze della domanda.
Renzi ha detto agli industriali “vi tolgo l’articolo 18 e i contributi, vi abbasso l’Irap, ora assumete”; ma la manovra del suo governo riduce i costi (e aumenta i profitti) per quelle imprese che già dispongono in qualche misura di una domanda la quale, tuttavia, è largamente insufficiente per impegnare tutte le risorse produttive esistenti e non aumenterà significativamente a seguito della riduzione delle imposte a carico delle imprese e dei diritti dei lavoratori. Anzi, i dati confermano che, pur riducendo il cuneo fiscale e aggiungendo 80 euro in busta paga – ma aumentando la precarietà dei posti di lavoro – i consumi e gli investimenti non crescono.
Dal punto di vista dello stimolo immediato alla crescita, tagliare (con la spending review) di 15 miliardi la spesa pubblica, che è già domanda in essere per il sistema produttivo, e pensare di compensarla riducendo di 9,5 miliardi i contributi a carico dei lavoratori (per tramutarli negli 80 euro in busta paga), di 5 miliardi l’Irap e di 1,9 miliardi i contributi a carico delle imprese per incentivare i contratti a tempo indeterminato, è un’operazione con effetto complessivo negativo perché non alimenta, ma riduce la domanda effettiva totale. Mentre i tagli di spesa si traducono per intero in calo della domanda, quest’ultima è accresciuta solo in piccola parte dalla riduzione dei contributi. Inoltre, poiché i tagli della spending review riguardano anche prestazioni di carattere sociale per beni e servizi primari, come quelli sanitari offerti dagli enti locali, una loro conservazione almeno parziale richiederà un aumento della tassazione locale.
Dal punto di vista distributivo la manovra beneficia essenzialmente le imprese, e specificamente quelle operanti nei settori meno dinamici (su 36 miliardi, solo 300 milioni sono finalizzati a ricerca e sviluppo!); non solo in via diretta (riducendo imposte e contributi a loro carico e concedendo nuovi incentivi) ma anche in via indiretta per gli effetti di traslazione a loro vantaggio sia degli sgravi contributivi formalmente a favore dei lavoratori sia dell’eventuale trasferimento in busta paga del Tfr. L’aspetto determinante sta nell’attuale debolezza contrattuale dei lavoratori, favorita dal protrarsi di livelli d’occupazione bassi e instabili e accentuata dai regressivi interventi governativi sulle regole del mercato del lavoro. Queste “riforme” prima hanno accorciato i tempi di rinnovo dei contratti a tempo determinato, adesso stanno eliminando pressoché del tutto l’articolo 18 nei contratti a tempo indeterminato; questi ultimi – paradossalmente – garantiranno minori certezze temporali di quelli a tempo determinato. In questo contesto, tutti gli interventi di riduzione del cuneo fiscale, anche quelli formalmente immaginati per aumentare la busta paga (come gli 80 euro e il Tfr), tendono ad essere riassorbiti a vantaggio delle aziende. Succede addirittura, sempre più diffusamente, che i lavoratori siano costretti a firmare di ricevere buste paga superiori a quelle effettive. Queste sono reazioni alla crisi di tipo illegale da parte delle imprese, ma fanno capire quanto esse, nel nuovo contesto normativo accentuato dal governo Renzi, possano utilizzare la normale contrattazione (specialmente nelle piccole imprese e quella individuale sempre più diffusa) per dirottare a loro vantaggio le misure che pensano di aumentare le buste paga. E tutto ciò è accompagnato dalla truffa ideologica secondo cui il “nuovo verso” renziano starebbe aumentando la libertà di scelta dei singoli lavoratori che, ad esempio, saranno liberi di decidere se vogliono o meno il loro Tfr in busta paga; ma si trascura il “particolare” che certi bisogni, come quelli di tipo previdenziale, sono meglio percepiti e più efficientemente ed efficacemente corrisposti se organizzati in modo collettivo e con obbligo assicurativo. Di questo passo, la “modernità” liberista fondata sull’individualismo etico vorrà convincerci, ad esempio, dell’opportunità di eliminare il sistema pensionistico pubblico obbligatorio, il sistema sanitario, le norme per la sicurezza nei luoghi di lavoro (e non solo) e tutte le norme che sostanziano la difesa dei beni meritori e dei diritti sociali che storicamente hanno contrassegnato l’avanzamento civile nel mondo del lavoro e nella convivenza sociale.
La legge di stabilità, nonostante i suoi scarsi effetti espansivi e le negative conseguenze distributive (che oltre ad essere inique, generano ulteriori effetti depressivi sulla crescita), crea anche motivi di contrasto con Bruxelles che potrebbero risolversi in misure penalizzanti. In una situazione di grave recessione, finanziare parzialmente la manovra in deficit (per 11 miliardi) e posticipare il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio non sono scelte sbagliate; anzi, nel procedere su questa strada bisognerebbe essere molto più convinti, ma valorizzando le sue potenzialità positive rispetto a quelle negative. Tanto più che il contesto internazionale rischia di peggiorare seriamente (le forti oscillazioni delle Borse sono un segnale) e il nostro paese sarebbe tra i primi a soffrirne le conseguenze. Quando, nel luglio 2012, Mario Draghi, disse in un famoso intervento rivolto ai mercati finanziari che la BCE avrebbe difeso l’Euro con tutte le sue forze e che “credetemi, saranno sufficienti”, la speculazione internazionale si fermò, comprendendo che era troppo rischioso andare oltre se la BCE si comportava come una banca centrale normalmente deve fare, cioè difendere l’intera economia di cui è uno strumento di politica economica. I tedeschi e i loro solidali del rigore “stupido” non ne furono lieti, ma dovettero constatare che la posizione assunta dalla BCE ridava fiato all’intera UE. Per oltre due anni l’avvertimento di Draghi ha retto, ma la Germania non ha mai dismesso la sua contrarietà a quella linea. Nel frattempo è aumentata fortemente l’offerta di moneta sia della FED statunitense sia della BCE; l‘economia reale non ne ha beneficiato (occorrevano e occorrono mutamenti strutturali della complessiva politica economica), ma – tra l‘atro – sono aumentate le munizioni della speculazione finanziaria. Se questa si convincerà che l’opposizione tedesca alla linea d’azione promessa dalla BCE nel 2012 arriverà a bloccarne l’attuazione in caso di bisogno, riducendola ad un bleuf, l’attacco ai titoli di stato dei paesi più deboli ripartirebbe alla grande e quelli italiani sarebbero tra i primi a farne le spese. Dunque, anche in rapporto a questa evenienza, l‘Italia dovrebbe massimizzare l’effetto espansivo delle politiche che può mettere in campo poiché solo una maggiore crescita del Pil può migliorare anche i nostri indicatori finanziari. Ma Renzi opera scelte che, economicamente e socialmente, sono omogenee agli interessi dei settori del Paese meno dinamici (a cominciare dalle imprese non innovative); politicamente, sono funzionali ai suoi obiettivi di sfondamento nel centro-destra e di emarginazione dei suoi oppositori di sinistra; i quali, peraltro, pur criticando anche aspramente queste politiche, non hanno la capacità di unire le loro forze e loro idee per difendere efficacemente gli interessi e le prospettive che pure riguardano l’intero Paese. L’illusionismo e la distrazione di massa dai problemi effettivi praticati dalle politiche di Renzi si accomodano, aggravando le specificità negative italiane, alla politica tedesca che frena l’economia e il processo unitario del’Unione Europea. Sia in Italia che in Europa c’è bisogno di un effettivo “cambiamento di verso”. Questo è l’appuntamento storico al quale la sinistra sta tardando.