Il processo di Bologna e la costruzione dell’Ue. Come il neo liberismo ha preso di mira gli atenei, attraverso l’offerta di fondi privati per la formazione e la ricerca
Un’ambiguità di fondo ha sempre caratterizzato il processo di integrazione europeo: nei decenni l’Europa ha rappresentato sia la costruzione di uno spazio pubblico capace di unire centinaia di milioni di uomini e di donne garantendo loro un livello di partecipazione democratica e giustizia sociale unico al mondo, sia un dispositivo strumentale all’ampliamento della sfera d’influenza del capitalismo e delle sue articolazioni geopolitiche e militari.
Modello sociale europeo e implementazione della globalizzazione neoliberista sono state due facce della stessa medaglia, quella della costruzione dell’Unione europea, per buona parte della seconda metà del secolo scorso. Due dimensioni diverse ma connesse, interpretate talvolta in maniera conflittuale tra loro da destra e sinistra, altre volte intrecciate in un’unica narrazione egemonica e consociativa.
I passaggi fondamentali delle politiche europee, anche dal punto di vista legislativo, in particolare negli ultimi due decenni, sono stati pienamente attraversati da questa contraddizione, ben rappresentata dal binomio Maastricht-Lisbona su cui si è retta l’Ue a cavallo del 2000: da una parte si fissano ambiziosi obiettivi di progresso sociale, dall’altra si stabiliscono criteri di rigoroso monetarismo e centralità assoluta del mercato che rendono impossibile raggiungere quegli obiettivi.
Questo schema di analisi, per quanto grossolano, può essere una chiave di lettura utile a capire il processo di Bologna[1] e a tracciarne un bilancio.
L’obiettivo dichiarato a Bologna nel 1999, infatti, era l’armonizzazione dei sistemi legislativi e istituzionali di formazione nei paesi Ue, per realizzare un spazio europeo dell’istruzione superiore che promuovesse la mobilità degli studenti, con riconoscimenti facilitati per periodi di studio all’estero, accrescesse la possibilità di occupazione, grazie alla maggiore spendibilità dei titoli di studio, e costituisse un polo attrattivo per le eccellenze a livello globale.
È evidente la coerenza tra questi obiettivi e il traguardo, stabilito a Lisbona un anno dopo, di fare dell’Europa la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010. Ma è altrettanto evidente come l’attuazione del processo di Bologna abbia comportato l’introiezione di logiche commerciali all’interno dei sistemi pubblici di formazione e ricerca (basti pensare ai concetti di credito e debito formativi, e allo slittamento dell’università europea, ancorata al modello humboldtiano del binomio inscindibile tra didattica e ricerca, verso un’ottica professionalizzante subalterna alla produzione) e come i traguardi e gli obiettivi di inizio millennio siano stati complessivamente disattesi.
Rileggere ora gli obiettivi di Lisbona fa sorridere: l’economia della conoscenza e le politiche sociali e ambientali come strumenti per raggiungere la piena e buona occupazione… È passato un anno dalla scadenza individuata, e invece che al trionfo del modello sociale europeo ci troviamo di fronte alle sue macerie, e l’Italia ne è l’esempio lampante: disoccupazione in crescita, in particolare quella giovanile, sistemi pubblici di welfare fatti a pezzetti, o comunque sotto accusa per le crisi fiscali, una crisi ambientale senza precedenti, e, in quanto all’economia della conoscenza, se è arrivata non ha portato i benefici tanto attesi.
Non che a Bologna sia andata molto meglio, e anche qui il caso italiano è particolarmente significativo: l’articolazione su tre livelli (laurea di primo livello, specialistica/magistrale e dottorato) dell’istruzione superiore si è dimostrata inefficace nel suo pur discutibile tentativo di rendere la formazione universitaria più flessibile alle esigenze del mercato del lavoro, mentre la mobilità internazionale è stata resa più difficile dalla pressione a completare nei tempi previsti un curriculum rigido, fitto di scadenze e obblighi di frequenza e per di più variabile di ateneo in ateneo, grazie all’autonomia, tanto da rendere quasi impossibile il riconoscimento degli esami condotti non solo in altri paesi ma perfino in altre università italiane o in altre facoltà dello stesso ateneo.
Ma qualcosa il processo di Bologna ha prodotto: ha fornito una faccia presentabile al percorso di sottomissione dell’università pubblica alle logiche del profitto. Le diverse riforme che hanno coinvolto l’università italiana degli ultimi 15 anni, infatti, se sono stati contraddittorie, frammentate, e prive della capacità di programmare a lungo termine sulla base di un coerente progetto culturale, condividono l’ispirazione di fondo, cioè la subalternità della missione culturale, sociale e civile dell’università pubblica a criteri di razionalità economica.
Il taglio costante dei finanziamenti al sistema universitario è finalizzato a costringere gli atenei ad aprirsi ai finanziamenti privati e, di conseguenza, all’influenza diretta delle aziende sia nell’insegnamento sia nella ricerca; influenza che con la riforma Gelmini diventa amministrazione diretta dell’università, attraverso la presenza dei privati nei consigli di amministrazione. Selezione sociale, aumento delle tasse universitarie, aziendalismo spinto nella gestione, riduzione degli spazi di democrazia nella governance. Ma è l’intero impianto ideologico che ha sotterraneamente accompagnato l’applicazione del processo di Bologna a essere culturalmente subalterno al mondo dell’impresa. Una lunga serie di riforme, mal progettate, mal applicate e mal finanziate, ma comunemente ispirate alle logiche di mercato e di aziendalizzazione del mondo della formazione, hanno di fatto portato ad una frammentazione e mercificazione del sapere col chiaro fine di creare professionalità a basso costo.
La contraddizione di cui si parlava all’inizio, quindi, tra modello sociale e strumentalità commerciale, ha attraversato tutte le fasi dell’applicazione di Lisbona come di Bologna. È troppo facile e autoassolutorio, per l’élite continentale, dare ora la colpa del proprio fallimento alla crisi, soprattutto se con questo termine si intende la crisi di debito pubblico che stanno attraversando Grecia, Italia e Spagna e non lo scoppio della bolla del debito privato generata dal finanzcapitalismo.
Certo, le politiche di austerity attuate dopo il 2008 non hanno precedenti: come recentemente ha denunciato la European Students’ Union, i pesanti tagli all’investimento pubblico e il conseguente aumento delle tasse universitarie e delle prospettive di indebitamento, riscontrati in Lettonia, Ungheria, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito, potrebbero avere “effetti devastanti” sul futuro dell’Europa, attraverso un “esodo dei giovani, forzati a studiare in paesi dove l’istruzione è ancora accessibile, creando maggiori disuguaglianza”.
La stessa Esu, dal resto, ha fatto notare come il programma “Erasmus for all”, lanciato lo scorso 23 novembre dalla Commissione europea per potenziare la mobilità internazionale studentesca, non preveda alcun aumento delle borse (nonostante il recente rapporto dell’Erasmus Student Network abbia sottolineato la centralità dell’aspetto economico nella scelta dell’accesso al programma di mobilità internazionale e della destinazione), bensì l’introduzione, anche in questo settore, di prestiti agli studenti.
Questo passaggio è particolarmente interessante, perché mostra quanto la crisi del debito pubblico sia in realtà un dispositivo strumentale ad imporre determinate politiche all’opinione pubblica.
In Italia, infatti la proposta di legge presentata dal senatore Ichino e da altri parlamentari dell’allora opposizione, e benedetta da Berlusconi nell’ormai celebre lettera alla Bce, propone di aumentare le tasse universitarie, fornendo in prestito agli studenti i soldi necessari a pagarle, per far fronte ai tagli della legge 133 del 2008, che hanno di fatto messo in ginocchio l’università pubblica italiana. Insomma, c’è l’alibi della crisi: dato che abbiamo un problema di debito pubblico, lo stato ha dovuto tagliare sull’università, e ora qualcuno deve pagare, cioè gli studenti e le loro famiglie. Ma tranquilli: vi prestiamo i soldi per farlo.
Però l’alibi del debito pubblico non funziona nell’esempio della Commissione europea: qualche borsa Erasmus in più non è nulla, nel bilancio dell’Unione. E, in ogni caso, se ci fossero difficoltà economiche, basterebbe rinunciare per ora al potenziamento del programma, dato che non si tratta, come nel caso italiano, di fornire i servizi essenziali oggi a rischio. Eppure si preferisce rilanciare sul progetto, prevedendo il suo finanziamento tramite prestiti.
Lo stesso avviene nel Regno Unito: gli studenti britannici, che già sono tra i pochi europei a pagare tasse universitarie più alte di quelle italiane (in 23 paesi su 27 sono più basse che da noi), hanno già sperimentato il modello Browne che Ichino vorrebbe importare in Italia. Eppure Draghi non scrive letterine a Cameron, la regina non lo licenzia per sostituirlo con l’eurocrate di turno e i telegiornali della Bbc non infilano la parola “spread” anche nei notiziari sportivi.
Sembra quindi che l’introduzione del prestito come strumento principe per il finanziamento dell’università non sia necessariamente legata all’emergenza italiana, ma sia invece parte di un processo più complessivo. L’impressione è che, più che far risparmiare allo stato cifre tutto sommato modeste per un bilancio nazionale, interessi sperimentare l’ingresso degli strumenti finanziari, e del meccanismo del debito in particolare, in territori finora inesplorati, almeno in Europa. Evidentemente chi per decenni ha incamerato congrui dividendi sfruttando la leva finanziaria in campi come l’edilizia residenziale, e ora, in attesa di tempi migliori, si sta rifugiando sulla speculazione più sicura in assoluto, quella sui titolo di stato, sta già indicando qual è la nuova strada da esplorare: quella dell’estrazione di profitti, attraverso il meccanismo del debito, dai campi finora occupati dai servizi pubblici di welfare, cioè la formazione, la sanità, la previdenza, la sicurezza sociale.
Gli studenti e le studentesse d’Italia, per primi, hanno evidenziato nel 2008, con lo slogan “Noi la crisi non la paghiamo”, la connessione tra la propria vertenza concreta e materiale sul taglio dei finanziamenti pubblici all’università e il quadro generale delle politiche di austerity. Quella connessione si fa sempre più forte, nell’epoca in cui, attraverso il dispositivo della crisi, l’élite finanziaria transnazionale tenta di risolvere definitivamente a proprio favore la contraddizione irrisolta tra modello sociale europeo e globalizzazione neoliberista.
Oggi più che mai è sotto gli occhi di tutti l’incompatibilità tra questo modello di sviluppo e gli standard di diritti e democrazia che i cittadini e le cittadine d’Europa reclamano. I cambi di governo imposti a Grecia e Italia, per quanto poco credibile sia Berlusconi nelle vesti di difensore di una democrazia parlamentare che lui stesso ha calpestato come nessun altro nella storia repubblicana, denotano evidentemente la torsione autoritaria che l’uso strumentale della crisi sta imponendo alle istituzioni nazionali ed europee.
A saltare sono le formalità e le ipocrisie dietro a cui da tempo si nasconde il potere reale, non solo nel rapporto tra finanza e politica, ma anche in quello, meno centrale ma tuttora comunque rilevante, tra stato e stato: la settimana scorsa la commissione bilancio del Bundestag ha potuto esaminare una bozza della finanziaria irlandese prima ancora che il governo di Dublino la varasse. Insomma, se “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, allora oggi è sovrano chi tiene i cordoni della borsa, cioè a livello istituzionale la Bce e dietro a essa un vasto campo di poteri più o meno forti, dai governi di Usa, Germania e Cina alle grandi corporation.
La sfida per i movimenti è esattamente speculare: se è in gioco la risoluzione, in un senso o nell’altro, della grande contraddizione tra modello sociale e globalizzazione neoliberista che sta alla base del processo di integrazione europeo, allora tocca ai soggetti sociali organizzati cogliere questa sfida e rilanciare sul piano della partecipazione democratica e della rivendicazione di un sistema continentale di welfare e diritti.
L’introduzione dell’Ice (iniziativa dei cittadini europei), i cui regolamenti nazionali sono in via di approvazione, può essere un primo campo di sperimentazione della capacità dei movimenti europei di incidere radicalmente sul piano dell’organizzazione e della proposta. Le idee già in campo sono molte, dal reddito di base alla cittadinanza di suolo passando per l’acqua come bene comune.
È tempo di rilanciare il processo costituente europeo liberandolo dalle strettoie delle burocrazie e delle lobby e facendolo vivere nelle mobilitazioni permanenti che stanno attraversando il continente. Un’altra Europa è possibile, e sta nascendo nelle piazze della democrazia reale.
[1]Il Processo di Bologna è stato un quadro comunitario di riforme dei sistemi di istruzione superiore, che si proponeva di realizzare, entro il 2010, lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. È iniziato il 18 e 19 giugno 1999, con la firma della dichiarazione di Bologna da parte di 29 ministri dell’istruzione europei. I suoi obiettivi centrali erano aumentare l’internazionalizzazione e la competitività dei sistemi di istruzione superiore europei, attraverso la riforma dei cicli (incarnata in Italia dal 3+2), l’introduzione del sistema dei crediti e altre misure, recepite in maniera diversa da diverse riforme universitarie nazionali.