Oskar Lafontaine propone di tornare alle monete nazionali, mettendo il dito nella piaga di tutti i problemi irrisolti dell’Unione. Ma dà la soluzione sbagliata: difficilmente realizzabile, e soprattutto non desiderabile. La proposta del fondatore di Die Linke rischia solo di avvicinarci alle istanze delle destre nazionaliste
L’euro è stato fondato con una politica monetaria comune ma senza una politica fiscale, una politica industriale e una politica dei salari. La proposta di ritornare alle valute nazionale lanciata da Oskar Lafontaine si fonda sul fatto che dall’introduzione della moneta unica i salari nell’area valutaria hanno avuto tassi di crescita differenti. La variabile chiave in questione è il costo del salario per unità di prodotto, che dipende sia della crescita dei salari che dalla crescita della produttività del lavoro. La Banca centrale europea fissa il tasso di crescita dell’inflazione al 2 per cento. Per essere compatibile con questa soglia, il costo del lavoro per unità di prodotto deve quindi crescere all’incirca di 2 punti percentuali annui. Tuttavia dall’introduzione dell’euro nel 1999 fino agli inizi della crisi finanziaria internazionale a fine 2007, i diversi paesi dell’area euro hanno registrato crescite dei salari marcatamente divergenti.
In Francia il costo unitario del lavoro è cresciuto di due punti annui circa.
In Germania le politiche di contenimento dei salari hanno di fatto impedito la crescita del costo del lavoro, che in alcuni casi ha registrato una lieve diminuzione; questa politica di dumping dei salari ha contribuito alla crescita dei surplus commerciali tedeschi, causando inoltre la mancata crescita della domanda interna nel paese.
Al contrario, nei paesi del sud Europa il costo unitario del lavoro è cresciuto più del 2 per cento annuo (a causa dell’elevata inflazione il salario reale non è cresciuto in maniera altrettanto considerevole); tutto ciò è stato accompagnato da deficit commerciali crescenti, largamente finanziati dai prestiti di banche tedesche e francesi. L’inversione di questi flussi di capitali dall’inizio della crisi dell’euro nel 2010 ha lasciato poi i paesi del sud Europa alle mercé delle politiche di austerità imposte dall’UE.
La situazione attuale implicherebbe l’imposizione di politiche di deflazione nei paesi periferici dell’area euro con la prospettiva di un declino prolungato del tenore di vita. Tutto ciò non sarebbe soltanto economicamente e socialmente indesiderabile. La realizzazione politica stessa di queste misure sarebbe alquanto difficile considerate le reazioni di ostilità all’Unione Europea ed alle politiche di austerity in molti paesi. In ogni caso, le opzioni a disposizione per uscire da questa situazione non sono soltanto restare nell’area euro che abbiamo o uscirne.
La valuta comune europea offre la possibilità di avere maggior controllo democratico sulle politiche economiche piuttosto che un insieme di singole valute nazionali. Essa riduce infatti la possibilità degli investitori privati nei mercati finanziari di speculare contro le singole valute e di imporre cambiamenti sostanziali alle politiche economiche nazionali, proprio come successo nel 1979 negli Stati Uniti, in Francia nel 1982 e nel Sistema monetario europeo (SME) nel 1992. Il ritorno alle valute nazionali con tassi di cambio fisso, come durante l’esperienza dello SME dal 1979 al 1999, non sarebbe possibile in quanto richiederebbe la reintroduzione del controllo dei capitali (come suggerito da Lafontaine). Tuttavia rispetto al 1999 le economie europee hanno raggiunto un livello di integrazione tale per cui l’imposizione di un controllo dei movimenti di capitali che sia davvero efficace non sarebbe possibile senza un’imponente dis-integrazione delle stesse economie Europee.
L’alternativa è quindi spingere per una maggiore integrazione delle politiche economiche:
Coordinamento delle politiche dei salari: deve essere invertito il trend che ha visto in quasi tutti i paesi dell’area una consistente redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Le politiche tedesche di dumping dei salari devono finire. La crescita dei salari in Germania (e nei paesi dell’Europea dell’Est in cui le imprese tedesche hanno delocalizzato parte della catena produttiva) andrebbero a rafforzare la domanda di esportazioni degli altri paesi Europei.
Coordinamento della politica fiscale: i paesi con ampi avanzi commerciali devono contribuire al trasferimento di capitali verso i paesi in deficit. Il budget dell’area euro dell’1 percento (in riduzione dal 2014 al 2020) è decisamente insufficiente e deve essere incrementato in modo da assicurare piena occupazione a livello nazionale, regionale ed europeo.
Coordinamento delle politiche fiscali: occorre promuovere con urgenza la creazione di posti di posti di lavoro altamente qualificati e ben retribuiti, in particolare nei paesi della periferia dell’area euro. Occorre inoltre invertire il processo di deindustrializzazione dei paesi del sud Europa avviatosi dall’introduzione della moneta unica; più in generale occorre battersi per trovare il modo di stabilire un controllo democratico sulle grandi corporations che dominano l’attività economica Europea e che evitano i controlli nazionali mettendo i paesi gli uni contro gli altri.
C’è il rischio che l’area euro possa frantumarsi. Ma gli interessi dei grandi gruppi e dei paesi chiave dell’area sono così intrecciati con l’euro che essi stessi faranno di tutto affinché questo non accada. La proposta di abbandonare l’euro è pertanto qualcosa che difficilmente potrà ottenere successo. Ma ancora più importante è che l’abbandono dell’euro è un obiettivo decisamente non desiderabile. La proposta di uscire dall’euro ci avvicinerebbe soltanto alle istanze poco gradite della destra nazionalista, motivate da ben altri obiettivi. I grandi gruppi industriali e finanziari sono organizzati su scala internazionale ed a livello Europeo c’è la possibilità di stabilire un maggior controllo democratico sulle loro attività. Un passo verso i singoli stati nazionali sarebbe soltanto una mossa nella direzione sbagliata.
(traduzione di Alessandro Bramucci)
Per saperne di più
di Alessandro Bramucci
Il 30 maggio è apparso sul sito personale di Oskar Lafontaine e poi ripreso dal Neues Deutschland, il quotidiano del partito tedesco Die Linke, un articolo dove il fondatore del partito stesso ha chiarito nel dettaglio le ragioni per cui i paesi d’Europa dovrebbero abbandonare la moneta unica e ritornare alle valute nazionali, dopo che alcune dichiarazioni a riguardo rilasciate in un’intervista al quotidiano Saarbruecker Zeitung nei giorni precedenti avevano scatenato la polemica all’interno del partito, e non solo. Sulle pagine del Manifesto ne ha scritto Jacopo Rosatelli.
Lafontaine scrive di come l’attuale crisi economica peggiori di mese in mese e che la crescente disoccupazione sta arrivando a mettere in crisi le stesse strutture democratiche. Né i tedeschi né la cancelliera Merkel, scrive ancora Lafontaine, si rendono conto che prima o dopo i paesi che soffrono maggiormente per gli export della Germania realizzati grazie alle politiche di dumping dei salari si alleeranno per trovare una soluzione. Nei dieci anni di vita della valuta unica europea non si sono realizzate quelle politiche macroeconomiche comuni che legassero la crescita dei salari alla produttività. I salari dei paesi oggi in crisi sono cresciuti in media del 20-30 percento, dando ai beni tedeschi un vantaggio competitivo nel mercato comune europeo. In Germania oggi, aggiunge Lafontaine, è inverosimile aspettarsi politiche alternative che favoriscano la crescita dei salari nazionali, considerato il potere dei grandi gruppi industriali e del blocco neoliberista di partiti in parlamento, dove elenca oltre ai partiti di governo Cdu/Csu e Fdp anche Spd e Verdi. Se quindi non è possibile una rivalutazione reale del valore delle merci tedesche, sostiene in conclusione il politico della Linke, occorre tornare ad un sistema di valute nazionali sull’esempio dello Sme, dove il valore delle nuove divise non sia lasciato ai mercati finanziari, ma regolato con l’ausilio di politiche di controllo sui movimenti di capitali e della Bce, insieme ad una riforma sostanziale del sistema bancario Europeo sull’esempio delle casse di risparmio tedesche.
Pdf dell’intervento di Oskar Lafontaine