Il programma di scambi di studenti di studenti universitari nato nel 1987 è un simbolo potente di quell’Europa del social welfare di cui oggi troppo poco si parla
È l’Europa degli studenti Erasmus, il programma di scambi di studenti universitari che dal 1987 ha portato circa 2 milioni e mezzo di giovani universitari a studiare in un altro paese. Fra i tanti chiari e scuri dell’Europa questo è forse l’aspetto che più mi da gioia; contribuisce a far sentire i giovani cittadini d’Europa; si svolge nel presente ma ha un impatto molto forte sul futuro; allarga la conoscenza; favorisce l’incontro di persone e realtà differenti. Il programma ha cambiato la vita a molti giovani; conosco parecchi casi di sposi che si sono conosciuti durante l’Erasmus, in un paese terzo: nei lei, ne di lui, ma in Europa. Certo mettiamoci anche l’inter-rail, i voli low cost e perché no pure la musica.
Il programma Erasmus è una variante di quel sistema di social welfare che si è realizzato in Europa occidentale dal 1945 in poi; alcuni diritti, ad esempio la salute ed una vita decente, sono di tutti a prescindere dal reddito e vanno garantiti anche a chi non produce reddito: giovani ed anziani. Diritto fondamentale è quello all’istruzione, dovremmo dire alla conoscenza, che si ricollega all’idea anche della tradizione liberale dell’uguaglianza dei punti di partenza. Obiettivi da raggiungersi attraverso lo stato fiscale, cioè la redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore di chi ha meno. Di crisi del modello sociale europeo sentiamo parlare assai spesso, il tema è che costa troppo, o così pare, e che quindi va ridimensionato e riportato al mercato. Va sottolineato che le critiche crescenti degli ultimi decenni si accompagnano all’inversione di quel processo di redistribuzione della ricchezza iniziato nel dopoguerra; dal 1990 ad oggi le disuguaglianze sono cresciute in tutti i paesi ad altro reddito ivi inclusi molti paesi europei di cui danno conferma ormai molti studi; da Bourguignon 2012, ai lavori di Milanovic (ad esempio in Targetti Lenti 2013), al recente ponderoso libro di Piketty, 2013.
Spesso non ci rendiamo conto dell’unicità di questo sistema; circoscritto nel tempo e nello spazio. Il modello viene da lontano e deve moltissimo alle lotte sociali del diciannovesimo secolo. Anzi le sue radici stanno anche nei movimenti rivoluzionari della seconda metà del settecento e quindi nel pensiero illuminista che rappresenta uno dei pilastri della storia europea e del processo di unificazione che prende impulso dopo la seconda guerra mondiale. Un modo di vita che ha una storia lunga e prestigiosa, ma una realizzazione, direi una vita politica, in realtà assai breve: è un modello giovane. Ed è solo in Europa, al netto di qualche cosa di simile in Canada, Australia e Nuova Zelanda; Stati Uniti e Giappone hanno organizzazioni differenti. Quindi non riguarda neppure tutti i paesi ad alto reddito.
Eppure una vita decorosa, educazione e salute sono i tre pilastri dell’Indice di Sviluppo Umano che le Nazioni Unite pubblicano dal 1990 e quando oggi parliamo di ‘sviluppo umano’, inevitabilmente pensiamo a salute ed educazione. Vita decente, educazione e salute sono fra i fondamenti degli Obiettivi del Millennio del 2000 e i nuovi obiettivi che saranno presentati nel 2015 confermeranno la centralità di questi tre diritti. È come se l’Europa fosse arrivata per prima a realizzare almeno in parte alcuni aspetti di ciò che oggi tutti pensiamo debba essere lo sviluppo; questo non solo nei dibattiti fra studiosi, ma anche nelle raccomandazioni di politiche di intervento, del che fare. Non solo, nei paesi in via di sviluppo, emergenti e non, c’è grandissimo interesse verso questo sistema di welfare europeo, considerato come un possibile modello, anche perché sanno di essere ancora nella fase in cui bisogna cercare di garantire questi diritti. Del resto tutta l’Unione Europea è vista come un esperimento storico di grandissimo interesse e che può insegnare molto ad altri paesi. Parliamo poco di questa Europa, vista con gli ‘occhi degli altri’! Con gli occhi dell’Unione Africana, ma anche dei paesi dell’America Latina e di molti paesi dell’Asia. Schiacciati dai discorsi sulla crisi e sui bilanci perdiamo di vista ciò per cui gli altri guardano a noi, dimentichiamo la nostra storia, che poi attenzione è comunque uno dei contributi più significativi a tutto il mondo come dire ‘multilaterale’, nato nel dopoguerra ed esploso dal 1989 in poi.
Torniamo al programma Erasmus; oggi il diritto all’educazione e alla conoscenza non si può limitare alla scolarizzazione fino al terzo livello, l’università, ma richiede, direi necessità, l’esperienza ed il confronto fuori dai confini del proprio stato. Dopo il recente referendum le università svizzere rischiano di essere tagliate fuori dai progetti congiunti di ricerca e di mobilità con le università europee, Erasmus incluso. Purtroppo alla stupidità umana che porta a danneggiarti non ci sono limiti; quello svizzero è un caso su cui bisognerebbe riflettere molto. L’anno scorso qualcuno a Bruxelles aveva pensato bene di ridimensionare Erasmus, ovviamente per ragioni di bilancio. Per fortuna ora abbiamo Erasmus+Plus che porta i nostri giovani fuori dai confini europei e favorisce l’arrivo di giovani da altri continenti. Insomma c’è un’Europa stupida, leggisi ‘di vista corta’, ma anche una più lungimirante. L’esperienza e l’incontro con altre realtà e persone, questa è la ricchezza più grande che possiamo lasciare ad un giovane europeo, perché possa sentirsi cittadino d’Europa, ma anche del mondo.
Bourguignon F. (2013), La globalizzazione della disuguaglianza, Codice Edizioni, Torino, 2013.
Piketty T. (2013), Le capital au 21e siècle, Ed. du Soleil, Parigi
Targetti Lenti R. (2013), Globalizzazione e diseguaglianza, in La Globalizzazione dopo la crisi, a cura di Nardozzi G. e Silva F. Brioschi, Milano 2013.