Nel suo ultimo libro Bernardo Bortolotti fornisce il suo contributo al dibattito sul tema della diseguaglianza e sugli stessi assunti teorici su cui si basa il nostro sistema economico
La coperta è corta, i soldi non ci sono. Ce lo sentiamo ripetere di continuo, ma a leggere i dati sulla distribuzione della ricchezza nel nostro paese la realtà sembrerebbe diversa. Col suo ultimo libro Bernardo Bortolotti, docente di Economia Politica all’Università di Torino e direttore del Sovereign Investment Lab della Bocconi, fornisce il suo contributo all’ampio dibattito che si sta sviluppando sul tema della disuguaglianza e sugli stessi assunti teorici del nostro sistema economico, ricostruisce la genesi dell’attuale crisi economica e dei problemi dell’Europa.
“Crescere insieme. Per un’economia giusta”, il titolo già contiene in sé la critica alle intollerabili disparità e all’iniquità del sistema in cui viviamo. Chiariamo subito che la disuguaglianza non è un male assoluto. La possibilità di distinguersi ed emergere, la ricchezza sono stimoli fondamentali per l’innovazione, spinte decisive per l’iniziativa individuale che si traduce in benessere collettivo. Al tempo stesso, tuttavia, la disuguaglianza, se derivante non dal merito ma dal godimento di rendite di posizione, frena la mobilità sociale, chiude i mercati e limita le opportunità; se eccessiva, mina la coesione sociale e si fa insostenibile. L’autore ne individua tre tipologie: tra le persone/categorie all’interno dei singoli paesi, tra i diversi paesi del mondo, tra le generazioni.
L’Italia non è messa bene. Negli ultimi vent’anni l’indice di Gini nel nostro paese è cresciuto di quattro punti, contro una media Ocse di due; laddove un aumento di due punti equivale a un trasferimento di reddito del 7% dal 50% più povero della popolazione al 50% più ricco. Negli anni ‘80 il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era pari a 8 volte il reddito medio del 10% più povero; nel 2008 il rapporto è diventato di 10 a 1. Con in più tre paradossi: 1) quanto all’elevato livello di disuguaglianza l’Italia somiglia a una piccola America, nonostante un livello di spesa pubblica e di tassazione tra i più alti del mondo. Ciò significa il totale fallimento delle nostre politiche redistributive; 2) nel nostro paese lo skill premium è ridotto, cioè il differenziale positivo nelle retribuzioni di chi possiede un titolo di studio più elevato è nettamente inferiore a quello degli altri paesi avanzati; 3) la disuguaglianza si concentra nel Centro-Sud del paese, vale a dire nella sua parte meno sviluppata. Per dirla con l’autore: “La disuguaglianza italiana è elevata, cattiva, polarizzata e, soprattutto, immobile.”
Che si sia arrivati a un livello di disuguaglianza insostenibile, secondo Bortolotti, lo dimostra la dinamica stessa che ha portato alla crisi dei mutui subprime. Le politiche messe in atto per favorire l’abnorme espansione del credito, infatti, sarebbero state finalizzate a offrire una valvola di sfogo alle frustrate aspirazioni d’acquisto della popolazione impoverita. Hanno raggiunto l’obiettivo, purtroppo.
In un mondo con questi livelli di disuguaglianza l’economia non può essere giusta. La situazione attuale è frutto del fallimento non soltanto del mercato, ma anche delle politiche messe in atto dagli Stati. Viviamo pertanto una crisi del mercato e dello Stato. Secondo l’autore, il problema sta nel fatto che la teoria economica si fonda su una concezione puramente egoistica dell’essere umano. Occorre andare oltre e prendere come riferimento una nozione dell’uomo come essere multidimensionale. Citando Adam Smith, l’egoismo nell’uomo è ‘naturalmente’ temperato dall’empatia, la razionalità si affianca cioè a un ‘senso morale’ che ci porta a simpatizzare con la felicità o la miseria dei nostri simili. Se così è – e così è secondo l’autore – l’economia giusta non può essere separata dall’etica e il mercato non può considerarsi contrapposto allo Stato. Occorre superare l’attuale visione dicotomica, nella quale il mercato persegue soltanto l’efficienza e lo Stato l’equità. Il mercato deve diventare un luogo in cui le scelte economiche abbiano un ancoraggio morale, in cui sia diffusa la consapevolezza che il benessere individuale e il benessere collettivo vanno di pari passo e in cui l’obiettivo non sia semplicemente crescere, ma crescere insieme. Lo Stato, dal canto suo, deve potersi ritirare nelle sue funzioni essenziali ed evitare il rischio di un’eccessiva dilatazione della spesa pubblica e delle conseguenti crisi da indebitamento.
La razionalità individuale, sganciata da qualsiasi riferimento valoriale, ha condotto a conseguenze collettivamente devastanti; tuttavia anche nell’attualità è possibile individuare i germi di un sistema diverso. Bortolotti illustra in proposito il sistema di governance duale tedesco e il progetto di Big Society (o Welfare Society) di Cameron: due modelli diversi, il primo pienamente rodato, il secondo tutto da sperimentare e ancora in fase di attuazione, ma entrambi forieri di elementi di cambiamento.
Nelle società per azioni tedesche azionisti e lavoratori gestiscono pariteticamente le aziende nel Consiglio di sorveglianza, organo di controllo supremo con funzioni analoghe a quelle del nostro Consiglio di amministrazione. Lì si realizza l’economia sociale di mercato e l’impresa si fa società nel vero senso della parola. Il board a gestione bilaterale vigila, oltre che sui risultati economici, anche sul perseguimento della giustizia sociale, prevenendo i conflitti e garantendo un’equa distribuzione del valore. L’efficacia del modello di relazioni industriali che ne risulta è lampante nella gestione dell’attuale crisi economica.
Oltremanica, Cameron ha lanciato un progetto di devoluzione di poteri e responsabilità dal centro alla periferia, cioè dalle amministrazioni centrali ai comuni e alle comunità locali, accompagnando le privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi pubblici locali con l’adozione di misure a sostegno dell’impresa sociale. Lo Stato si ritira, ma non come sotto la Thatcher, bensì con l’obiettivo di sviluppare un “capitalismo comunitario a vocazione sociale”. È una scommessa ancora tutta da verificare, che però l’autore considera di grande rilievo. Particolarmente interessante l’istituzione dei Social Impact Bonds, contratti di partenariato pubblico-privato per il finanziamento e l’erogazione di servizi sociali. “In estrema sintesi, un finanziatore privato e un’organizzazione non profit sviluppano un progetto che può generare ricadute sociali positive quantificabili. Il governo si impegna a sostenere i costi e a riconoscere un congruo rendimento al capitale investito solo se il programma centra l’obiettivo. In caso di successo il governo risparmia risorse, l’investitore ottiene un profitto e l’ente non profit realizza la propria missione. In caso di insuccesso le perdite ricadono solo sull’investitore.” A sostegno della finanza sociale anche l’istituzione del Social Stock Exchange, una borsa dedicata, e del Big Society Capital, fondo privato di emanazione pubblica, alimentato dai conti dormienti, con la missione di investire su specifici progetti di finanza sociale.
In sostanza è necessario promuovere l’affermazione di un capitalismo etico. Coniugare la riduzione dell’instabilità del sistema finanziario con il mantenimento della spinta propulsiva dello stesso nel canalizzare le risorse là dove hanno maggiore possibilità di rendimento. A tal fine è importante che convivano organizzazioni con culture, strutture e obiettivi diversi, dice l’autore. Le banche non profit, per esempio, sono promotrici di un processo di democratizzazione della finanza.
È inoltre essenziale temperare l’attuale sbilanciamento dei manager sugli obiettivi a breve termine. La proposta di Squam Lake City (gruppo indipendente di economisti) in tal senso è interessante: distribuire significativamente nel tempo l’attribuzione della parte variabile della remunerazione, ad esempio assegnarla dopo cinque anni dalla chiusura dell’esercizio, con l’obbligo di restituzione dei benefit in caso di salvataggio pubblico. Ma il problema della focalizzazione sul breve periodo è anche degli azionisti. Mentre nel 1960 negli Stati Uniti un’azione veniva tenuta in portafoglio per otto anni, nel 2005 la media è scesa a meno di un anno. Per costringere gli azionisti all’empatia, Bortolotti avanza l’ipotesi di introdurre classi speciali di azioni volte a fidelizzare gli investitori. Una sorta di “azioni-fedeltà”, acquistabili a un prezzo predeterminato da parte di chi abbia tenuto il titolo in portafoglio per un periodo di tempo minimo.
Infine, la tutela dei beni comuni tramite l’istituzione di Trust. Secondo l’autore, i beni comuni potrebbero divenire oggetto di diritti di proprietà collettiva tutelati dallo Stato al pari dei diritti di proprietà privata. I Trust, istituzioni ibride tra il mercato e lo Stato, sarebbero titolari di questi diritti, incaricati della gestione, salvaguardia e promozione di beni pubblici. Col vantaggio che l’assegnazione di un diritto di proprietà è cosa più stabile della mutevole tutela legale e che la missione dei trustee sarebbe meglio definita rispetto a quella dei politici, tanto che in caso di violazione dei doveri fiduciari ci sarebbe la possibilità di citare gli amministratori in giudizio. Cosa ben più difficile nei confronti dei politici, nel caso in cui non rispettino la volontà popolare.
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