Il Meridione è assente dalla poltica. Alle radici dell’arretratezza del Sud ci sono la questione agraria, la dipendenza dall’esterno, lo stato che non funziona
Segnaliamo la recente pubblicazione del libro L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia, a cura di Cosimo Perrotta e Claudia Sunna (Bruno Mondadori, euro 22). Riportiamo una parte della Prefazione del libro. Il volume è frutto di una ricerca di gruppo (non un libro collettaneo) che contiene saggi di Michele Alacevich, Santina Cutrona, Anna Azzurra Gigante, Cosimo Perrotta, Maurizia Pierri, Fabio Pollice, Salvatore Rizzello, Anna Spada e Claudia Sunna.
1. Perché è necessaria una visione d’insieme
Spesso gli storici e gli economisti trovano difficoltà a misurarsi col problema dell’arretratezza del Mezzogiorno. Infatti, secondo l’interpretazione prevalente (che è anche la nostra) questo problema data da quasi mille anni; e storici ed economisti rifuggono da analisi così estese nel tempo. (…) In tal modo, però, questi studiosi rinunziano a indagare sui processi di fondo che hanno prodotto e riprodotto per secoli l’arretratezza del Sud. Spesso trascurano la continuità di quei processi, per sottolineare differenze e particolarità di ciascun periodo o regione.
Così perdono di vista quella che Galasso ultimamente ha chiamato la “sostanziale permanenza di un certo indirizzo degli equilibri (o squilibri) strutturali e sociali” del Mezzogiorno. “Permanenza … che non significa immobilità”, ma in cui “l’orientamento dell’equilibrio sociale rimane costantemente sbilanciato nel medesimo senso. Così la composizione delle classi e dei ceti feudali muta profondamente nel corso del tempo; la feudalità della fine del secolo XVI è largamente diversa da quella di due secoli prima, così come sarà ancor più diversa quella di due secoli dopo. La posizione feudale rimane tuttavia stabile nel suo predominio e nel suo ruolo sociale.” La stessa cosa vale per “l’equilibrio agrario-mercantile”, che si impianta sin dal XII-XIII secolo, fondandosi su rapporti “di dipendenza e di subalternità” ai “dominatori del grande mercato” europeo; e che, come la feudalità, dura fino alla fine del regno di Napoli. Lo stesso vale ancora per l’appoggio dato a mercanti e finanzieri stranieri; per la prevalenza dell’investimento immobiliare e in titoli pubblici; per l’importanza data agli status symbol (Storia del Regno di Napoli, vol. VI, De Agostini, 2011, pp. 595-6).
Galasso aggiunge che nell’Italia post-unitaria, il divario Nord-Sud era “la prosecuzione di una condizione, di lontana origine, del Mezzogiorno, perpetuatasi attraverso i secoli rispetto alle potenze economiche dell’Italia settentrionale e, poi, anche di altre parti d’Europa” (ivi, p. 598). (…)
2. Le tre cause originarie dell’arretratezza del Sud
Un po’ schematicamente (ma gli schemi servono all’analisi) possiamo dire che le cause generative dell’arretratezza del Sud furono tre: il latifondo, la dipendenza economica, e un rapporto perverso tra stato e società civile.
Il latifondo dominò sin dall’inizio l’economia del Sud medievale. Assunse presto una struttura feudale, che durò fino agli inizi del sec. XIX (1806), e in parte fino al 1860. Ma anche dopo, la sua prevalenza economica continuò, fino alla metà del sec. XX. In questi dieci secoli (se vogliamo partire dall’inizio della rinascita europea) la rendita agraria rimase il reddito fondamentale del Sud, da cui quasi tutti gli altri redditi dipendevano, direttamente o indirettamente.
Dunque nei dieci secoli in cui l’Italia del centro-nord e l’Europa occidentale si sono sviluppate (…) il Sud rimaneva povero, agricolo e arretrato.
Il secondo fattore, la dipendenza dell’economia meridionale dalle economie esterne più forti, nasce per le politiche che lo stato unitario del Sud, formatosi nel sec. XII, attua sin dall’inizio. Per difendere il proprio potere centrale, i sovrani reprimono l’autonomia delle città e gravano queste ultime di un peso fiscale intollerabile. Così essi distruggono la vita commerciale delle città, unica fonte interna di ricchezza crescente. Di conseguenza gli stessi sovrani, per finanziarsi, vendono tutti i diritti, concessioni e monopoli possibili ai mercanti del centro-nord, e poi di altri paesi. Ben presto il Sud diventa esportatore di materie prime e importatore di manufatti.
Il terzo fattore, da una parte, è conseguenza dei primi due; ma dall’altra è anch’esso originario. Il cattivo rapporto fra istituzioni e privati nasce con lo stato unitario del Sud, i cui sovrani sin dall’inizio sono dominatori esterni, che non rappresentano i popoli della regione. La loro politica di potenza li rende ben presto succubi dei feudatari e dei mercanti stranieri. Lo stato finisce col diventare il braccio armato delle classi dominanti. Esso reprime i contadini e impedisce la nascita di un ceto medio indipendente e moderno.
(…) Naturalmente la vicenda storica del Mezzogiorno non deriva in modo deterministico da quelle cause originarie. Tuttavia i cambiamenti dell’economia meridionale nel corso dei secoli sono stati condizionati negativamente da questi tre fattori.
Fino al Seicento la struttura avviata nel medioevo permane incontrastata, e consolida i caratteri pre-moderni dell’economia, della gerarchia sociale, dei valori. Nascono così il familismo amorale, il mancato riconoscimento dell’interesse pubblico, la visione strumentale delle norme e dei suoi apparati.
Nel Settecento si vede qualche timido tentativo, fallito, di modernizzazione. Nel sec. XIX ci sono le leggi eversive della feudalità, dei sovrani napoleonici; quindi gli insediamenti industriali protetti, con capitali stranieri, promossi dai Borboni. Con l’Italia unificata si ha il primo cambiamento radicale. Vengono introdotte l’istruzione elementare obbligatoria; la ferma militare; strade e ferrovie; scuole (…)
Il salto decisivo avviene solo nella seconda metà del sec. XX. (…) Crescono i consumi, la scolarizzazione, il lavoro extra-agricolo, l’industria, le abitazioni moderne, le strade, le comunicazioni, l’istruzione universitaria, il ceto medio.
Tuttavia questo rapidissimo cambiamento nel livello dei consumi e dei servizi, e il relativo cambiamento nella produzione non furono dovuti ad un aumento della produttività e all’affermarsi del profitto, come reddito fondamentale, al posto della rendita agraria. La causa, com’è noto, furono i finanziamenti pubblici, sia nella produzione che nella spesa sociale. Questo permise alle vecchi élite borghesi e ai vecchi valori pre-moderni di sopravvivere, in forma camuffata, all’interno della (presunta) modernità della società meridionale. (…)
In questo senso i tre fattori originari dell’arretratezza, nonostante tutti cambiamenti, continuano a impedire lo sviluppo del Sud.
Da questo passaggio cruciale derivarono prima l’assistenzialismo; poi il rifiuto dell’assistenzialismo e con esso il rifiuto della stessa “questione meridionale”; e infine l’assenza odierna di criteri per valutare la situazione del Sud.