In soffitta Monti, nell’angolo la sinistra che non si è smarcata dalla sua austerity. Ma nel nuovo, difficile scenario occorre ripartire da quel che c’è e quel che può esserci. Cominciando con l’aggredire conflitto di interessi e corruzione: il contrario delle “larghe intese”
Il dibattito sull’esito del voto e sulle prospettive che si aprono sembra riproporre il paradosso che ha caratterizzato la campagna elettorale: anche adesso c’è una generalizzata sottovalutazione della crisi che pure si delinea come la più grave del capitalismo in tempi di pace, che in Europa è aggravata dalle controproducenti modalità seguite nella costruzione dell’Unione e che in Italia è ulteriormente esasperata da un declino del sistema economico e dai fallimenti della politica iniziati da oltre due decenni.
Le prospettive della condizione italiana (non solo economica) sono aperte ad esiti anche molto pericolosi che, se si verificassero, contagerebbero in vario modo non solo l’Europa, ma l’intera economia mondiale. Ma proprio perché siamo in una crisi strutturale con rischi di aggravamento ravvicinati, se, da un lato, è necessario fare riferimento ai problemi di fondo, d’altro lato, occorre valorizzare gli aspetti potenzialmente in grado già nell’immediato di favorire una svolta in positivo o comunque di ostacolare il peggio.
La crisi globale è al suo sesto anno e finora è stata affrontata riproponendo la stessa visione economica, sociale e politica che è alla base della sua origine. Tra le sue cause strutturali ci sono il forte peggioramento della distribuzione del reddito e l’indebolimento del ruolo delle istituzioni rispetto ai mercati. Quest’ultimo aspetto è particolarmente negativo poiché i fallimenti dei mercati trovano particolare difficoltà ad essere superati in mancanza di una adeguato intervento pubblico nei rapporti economici.
Inizialmente la crisi sembrava (ad alcuni) confinata al settore finanziario, ma progressivamente ha mostrato tutte le sue dimensioni economiche, sociali e individuali. L’occupazione è diminuita e peggiorata per qualità, precarietà e remunerazione, raggiungendo livelli – e prospettandone di peggiori – sconosciuti per le nuove generazioni che, invece, erano cresciute sentendosi proiettati verso condizioni di vita più gratificanti rispetto a quelle dei genitori. Quasi non bastassero i problemi generati dai mercati, scelte politiche e tecnicamente incongruenti come la riforma pensionistica Monti-Fornero hanno ulteriormente ridotto e peggiorato sia le possibilità occupazionali dei più giovani (per l’aumento dell’età di pensionamento) sia le speranze di reddito dei più maturi che, avendo perso il lavoro, anziché pensionati sono stati esodati. Gli indicatori statistici registrano per il nostro paese il particolare aumento non solo della povertà espressa in termini assoluti, ma anche di quella relativa, segnalando l’aumento delle disparità di reddito e sociali e confermando che la crisi sta peggiorando particolarmente le condizioni di coloro (la generalità dei percettori di salari la cui dinamica non garantisce più nemmeno dall’inflazione) che avevano già pagato le forti sperequazioni distributive del modello di sviluppo dominante negli ultimi tre decenni.
La precarietà in aumento, che ha colpito non solo le relazioni economiche, ma anche quelle sociali e la psicologia individuale, è il tratto distintivo degli ultimi decenni; alle responsabilità dei mercati si sono unite quelle della politica la quale – mediamente – non ha avuto un’ adeguata percezione dei problemi, dello stato d’insofferenza sociale e della necessità di cambiamento; di ciò si è avuta conferma anche nell’impostazione dei programmi elettorali e, adesso, nella interpretazione del voto. Questi risultati, invece, sono meglio compresi se si tiene conto del grado di discrasia avvertito nelle diverse fasce di elettori tra la gravità della crisi e la scarsa fiducia attribuita alle proposte della politica per superarla.
La campagna di Grillo è entrata poco nel merito dei problemi aperti dalla crisi economica e delle possibili soluzioni concrete, ma ha comunque raccolto un vasto consenso limitandosi a rivendicare l’estraneità del movimento Cinque stelle dalla politica attuale, dai suoi rappresentanti, dalle sue responsabilità e finanche dai media visti come il loro canale di affermazione. Il messaggio di Grillo ha fatto breccia in uno strato di elettori il cui numero è fortemente cresciuto parallelamente al diffondersi della crisi. La loro crescente e comprensibile insofferenza li ha spinti a premiare, in mancanza di alternative ritenute credibili, chi, pur in mancanza di proposte organiche per superare l’esistente, tuttavia lo rifiutava con forza istrionica e con risoluto dileggio verso i suoi responsabili.
Il forte recupero elettorale di Berlusconi – che pure partendo dal baratro dei suoi fallimenti politici e d’immagine è arrivato fin quasi al successo – si è alimentato con analisi e promesse fasulle a piacere, ma che erano sufficienti a sollecitare la pancia di elettori colpiti dalla crisi che non vedevano alternative più gratificanti.
L’agenda Monti è stata chiaramente spazzata via dal voto, smentendo non solo il suo autore, ma tutti coloro (non pochi, e presenti alle varie latitudini politiche e d’opinione) che pretendevano fosse la strada obbligata per chiunque avesse vinto le elezioni. Queste elezioni aprono scenari complessi, anche rischiosi, ma non riducibili semplicisticamente e con malriposta superiorità alla vittoria di due clown; tra i suoi risultati c’è anche l’aver intaccato positivamente l’equivoco tecnocratico di Monti, con effetti suscettibili di estendersi anche al di fuori del nostro Paese.
Proprio per la natura economica, sociale e politica della crisi, la sinistra e il centrosinistra erano – e sarebbero – nella situazione potenzialmente migliore per affrontarla positivamente, ma sono stati frenati dalla “paura” e/o dalla incapacità di proporre i programmi ad essi più congeniali e comunque necessari; l’assenza di una proposta politicamente credibile in tale direzione ha lasciato invece senza una risposta in positivo larga parte della comprensibile insofferenza verso i risultati generati dai fallimenti dei mercati e delle politiche che hanno dominato gli ultimi tre decenni.
Adesso le forze progressiste non possono non ricominciare dalla situazione così come purtroppo è – con i suoi vincoli politici, economici, nazionali, europei e internazionali – ma devono iniziare a modificarla nella direzione giusta. Devono cominciare col rimuovere le insopportabili specificità negative del nostro paese (come i conflitti d’interesse, la corruzione e i costi esorbitanti presenti nella politica, la sciagurata legge elettorale e la ridondanza degli assetti istituzionali centrali e territoriali), scelte che non potranno certo essere prese coinvolgendo il centro destra (come qualche “furbo” di sinistra già propone), ma che invece potranno usufruire della spinta positivamente dissacrante che ci si aspetta dai parlamentari Cinque stelle. La direzione giusta verso cui puntare per superare positivamente la crisi passa poi per il cambiamento del modo di costruire l’Unione Europea che è un traguardo indispensabile e da raggiungere il più presto possibile. La stella polare del cambiamento in Italia e in Europa che deve essere prospettato in modo politicamente e tecnicamente credibile è il riequilibrio degli assetti distributivi e dei rapporti tra mercati e istituzioni, entrambi indispensabili per migliorare quantità e qualità della crescita e dell’occupazione; altro che agenda Monti!
Guardando ancora oltre, occorre avere la capacità e la credibilità di prospettare un mondo migliore. E’ necessario ridare entusiasmo alle popolazioni, e in particolare ai giovani, accrescendo la loro partecipazione nelle scelte collettive tramite il rafforzamento delle istituzioni democratiche presenti a tutti i livelli territoriali, per poter interagire più efficacemente con i mercati, guidando il sistema produttivo e sociale verso obiettivi condivisi di benessere valutati in termini di qualità della vita; questa prospettiva, proprio nei tempi attuali di rischiosa transizione, è un’utopia concreta.