Dopo una serie di recensioni entusiaste, è arrivato il Financial Times, per mano del suo economic editor, a fare le pulci al libro di Piketty. Scatenando un polverone mediatico
La pubblicazione in lingua inglese del Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty ha scatenato una ridda di commenti, recensioni e dibattiti come da tempo non si vedeva nel mondo dell’economia. La tesi di fondo, ormai nota, è che il capitalismo sia governato da forze che spingono verso la diseguaglianza e che dunque creino una contraddizione insanabile: la rendita della ricchezza – anzi, secondo Piketty, del capitale – r, è storicamente più alta del tasso di crescita dell’economia, g. Dunque, data una iniziale distribuzione ineguale del capitale tra la popolazione, i ricchi sono destinati a diventare sempre più ricchi, altro che trickle down effect, il paradigma neo-classico secondo cui lo sviluppo economico favorisce non solo i più ricchi ma, a cascata, tutti gli addetti di quell’economia (i).
Non è questo il posto per una più lunga e approfondita recensione, ma certo il lavoro di Piketty non poteva passare sotto traccia in una società occidentale alle prese con i dilemmi della crisi e soprattutto del post-crisi e il libro è schizzato in testa alla lista dei best-seller del NYT. Dopo una serie di recensioni entusiaste, e alcune molto meno, è infine arrivato il Financial Times che, per mano del suo economic editor, Chris Giles, ha pensato bene di fare le pulci ai dati di Piketty.
Nulla di male, anzi, non fosse per il fatto che di solito i giornali non si mettono a controllare i risultati empirici dei libri – in questo caso sì, e forse è comprensibile dato il successo clamoroso del Capitale.
Giles ha avanzato molte contestazioni, imputando errori di computazione e pure dati mancanti non adeguatamente spiegati. Il casus belli principale riguarda la diseguaglianza in Gran Bretagna – secondo Piketty il 10% più ricco della popolazione detiene il 71% della ricchezza nazionale, mentre secondo l’Office of National Statistics questa quota si abbassa al 44%. Differenze notevoli che giustificano senza dubbio qualche domanda. L’articolo del FT però, più di una normale ricerca investigativa è parso fin da subito un attacco diretto a Piketty: il taglio del pezzo è parso chiaro fin dal titolo, in cui si annunciava che l’apparato teorico del Capitale non fosse supportato da alcuna prova – non proprio una richiesta di chiarificare; contattato dal giornale, a Piketty sono state date meno di 24 ore per replicare alle numerose accuse; infine, Giles ha paragonato l’economista francese e il suo lavoro a quello di Reihnart e Rogoff sul debito pubblico e crescita, forse la peggior accusa da poter muovere a un lavoro economico. La tesi di sottofondo, enunciata in maniera diretta nel pezzo del giornale, è che l’autore avesse scelto di proposito alcuni dati (cherry-picking) per dimostrare le sue tesi, altrimenti infondate (ii). Secondo l’FT non c’è nessuna prova che la diseguaglianza sia salita negli ultimi decenni.Un attacco pesantissimo, subito ripreso dai principali giornali mondiali. Che si è però dimostrato largamente infondato. Piketty, dopo una settimana, ha risposto con grande precisione alla accuse: ha ammesso, come sempre per altro, che i dati a disposizione non sono completi, né possono esserlo – soprattutto quando si parla di serie storiche di oltre 150 anni, con dati e metodologie di raccolta diverse (iii). Non si tratta però certo di una notizia, né tantomeno di una prova che i dati empirici disponibili non supportino le tesi del Capitale. Le spiegazioni richieste sono state date, puntualmente. La maggior parte delle contestazioni di Giles non mettono in dubbio i risultati generali, a parte il vero punto del contendere, la discrepanza sui dati del Regno Unito che secondo il FT dimostrerebbe l’assenza di un trend di crescita nella diseguaglianza. Vediamo nel dettaglio il problema:
I dati di Piketty (che vengono dai dati del ministero delle Finanze – HMRC – e sono molto simili a quelli usati dalla Banca d’Inghilterra) sembrano essere più attendibili rispetto al questionario usato dall’Office of National Statistics (iv). Come sottolineato da diversi economisti, questionari di questo tipo sono particolarmente scarsi nel catturare la ricchezza, soprattutto della parte più ricca della popolazione, che raramente viene intervistata, e altrettanto raramente risponde fedelmente, per ovvi motivi (v).
In realtà, proprio la scelta del FT di basarsi solo sui dati delle Statistiche Nazionali per dimostrare che la diseguaglianza non fosse cresciuta nel Regno Unito negli ultimi 30 anni è, a dir poco, metodologicamente discutibile: come sottolineato dallo stesso Piketty e da Howard Reed sul Guardian, il Financial Times usa i dati fiscali fino al 1980, per poi passare al questionario (che non esisteva prima di allora), e mettendo in serie due dati di natura e composizione completamente diversa ottiene poi il risultato di una diseguaglianza stabile: peccato che, per usare un concetto caro a molti economisti, si stiano comparando arance a mele.
Insomma, l’articolo del FT sembra esser lungi dall’aver smentito Piketty, ma ha comunque creato un polverone mediatico attorno al Capitale. Secondo Milanovic, l’attacco e la perseveranza del FT è fuori proporzione, secondo Krugman, meno diplomatico, si tratta di un attacco tutto politico.
In effetti il tono accusatorio e financo arrogante di Giles, il suo rifiuto di rispondere alle serie critiche metodologiche al suo lavoro sembrano andare ben oltre la normale investigazione giornalistica. Piketty ha dedicato quindici anni di ricerca accademica al tema della diseguaglianza e il giornalista inglese non poteva certo avere la competenza per smontare in un paio di giorni un lavoro di tale portata. E questo avrebbe dovuto forse suggerire un’umiltà maggiore: il FT poteva e doveva fare domande, anche e soprattutto scomode, e chiedere chiarimenti – è il compito di qualsiasi buon giornalista. Un conto, però, è fare domande, un altro è darsi anche le risposte – basandosi soprattutto su argomentazioni con una discutibile base scientifica, e che sembrano messe insieme più che altro per dimostrare una tesi pre-costituita, proprio l’accusa che il Financial Times muove a Piketty. Più che giornalismo sembra un tentativo di demolizione politica di tesi che rischiano di diventare molto scomode.
i In parole povere, non è vero che un aumento del PIL – una torta più grande – porti maggior ricchezza per tutti – la torta più grande genera fette più grandi – perché il detentore di capitale si impossesserà di una parte della torta sempre maggiore. ii In un tono di montante polemica Giles ha accusato Piketty di aver costruito dei dati “out of thin air”. iii I dati empirici di Piketty sono tutti pubblicati on line e continuamente aggiornati, una differenza clamorosa con quelli di Reinhart e Rogoff che furono resi disponibili solo dopo mesi di insistenze. iv Per altro lo stesso Office of National Statistics ha fatto sapere che il questionario è ancora in fase sperimentale. v È vero, come dice il FT, che Piketty usa un questionario di questo tipo per i dati sugli Stati Uniti. Va però notato che tali dati – oltre ad essere generalmente ritenuti più attendibili di quelli inglesi – sono stati poi mediati con quelli fiscali, soprattutto, sono stati confermati da altre e più recenti ricerche scientifiche (Saez and Zucman, 2014).