I 24 saggi, articoli e manoscritti di Polanyi raccolti in questo volume dal 1922 al 1957 possono giovare alla comprensione di un autore sempre più citato, non senza semplificazioni e distorsioni del suo pensiero. All’analisi della “trasformazione” nel periodo fra le due guerre mondiali è dedicato il paragrafo conclusivo dell’Introduzione, qui in buona parte riprodotto.
Partendo dalla crisi del capitalismo liberale ottocentesco, Polanyi ci offre una chiave interpretativa dello sviluppo susseguente, fino ai giorni nostri. Una volta escluso il cambiamento in direzione della democrazia socialista, l’inevitabile trasformazione […] non poteva consistere che nel passaggio a un diverso assetto istituzionale del capitalismo. Economia e politica dovevano cessare comunque di fungere da baluardi contrapposti della lotta di classe: dovevano ritrovare una coerenza, un’“integrazione”. Ciò implicava, secondo Polanyi, che la democrazia, anche dove non veniva abolita da regimi fascisti o autoritari, rispettasse i vincoli imposti dall’organizzazione capitalistica del sistema economico. […]
In articoli e manoscritti degli anni Venti e Trenta, e infine nella Grande trasformazione (1944), Polanyi analizza le diverse modalità della trasformazione ovvero “il capitalismo nelle sue forme non liberali, cioè corporative,” che gli consentono di “continuare indenne la sua esistenza assumendo un nuovo aspetto” (Polanyi, “L’essenza del fascismo”, 1935). I due articoli del 1928, tradotti nel cap. 3 di questo libro, analizzano la riorganizzazione corporativa proposta in Inghilterra dal Rapporto della Liberal Industrial Enquiry, commissionato dall’ala sinistra del Liberal Party. Collaborò all’Inchiesta anche Keynes, che ne aveva suggerito alcuni temi nel famoso articolo “La fine del laissez faire” del 1926. Fra i punti del Rapporto rilevati da Polanyi ci sono l’esigenza di un piano e dell’intervento dello Stato, l’opportunità di istituire enti intermedi, magari pubblici, fra le imprese e lo Stato, l’inevitabilità e perfino la convenienza di un certo grado di monopolio.
Egli si sofferma in particolare sulla questione delle relazioni industriali. A suo avviso, la presenza di consigli di fabbrica, le proposte di collaborazione con le organizzazioni dei lavoratori e di compartecipazione agli utili non è detto che spostino realmente il potere a favore dei lavoratori o contengano qualche elemento di socialismo, potendo invece risultare funzionali alla ristrutturazione corporativa del capitalismo. Forme di coordinamento industriale e di collaborazione fra le classi non segnalano necessariamente che ci si avvii oltre “una società la cui sostanza è il cash nexus”. Il lavoro salariato potrà essere elevato “da mero rapporto contrattuale a status garantito giuridicamente e sostanziato di valori sociali” – aggiunge Polanyi – ma senza che venga messa in questione “la proprietà privata dei mezzi di produzione”. Non è per caso che progetti e iniziative d’indirizzo corporativo si sviluppino in Gran Bretagna dopo la chiusura di anni di lotte con la sconfitta del movimento operaio in occasione dello sciopero generale del 1926, da Polanyi ampiamente commentato nel settimanale Der Österreichische Volkswirt (per il quale scrisse 250 articoli fra il 1924 e il 1938). Gli sembra significativa, in proposito, l’iniziativa presa nel 1927 da Alfred Mond, Presidente delle Imperial Chemical Industries, di un dialogo con il TUC (Trades Union Congress), seguito da un comitato congiunto, in base all’idea che fosse di comune interesse combinare efficienza industriale e pace sociale.
Con la crisi economica la tendenza conservatrice della trasformazione corporativa non lascia più dubbi, anche dove il fascismo non prevale. Polanyi interpreta in questo senso il National Government britannico del 1931, formato da Ramsay MacDonald, primo ministro del precedente governo laburista, con membri del Partito Conservatore, del Partito Liberale e del National Labour, mentre il Partito Laburista andava all’opposizione. MacDonald, commenta Polanyi, ha sposato le ragioni della City (‘dei mercati’, diremmo oggi) riguardo all’incompatibilità con la crisi delle riforme del governo laburista a favore dei lavoratori. Non solo gli interessi di questi ultimi furono danneggiati, ma anche la democrazia, con la sospensione del bipartitismo: con l’ipocrita scusa, continua Polanyi, di “salvare la sterlina”. In effetti il 19 settembre, poco dopo la pubblicazione del suo articolo, il National Government rinunciò a difendere la sterlina e la Gran Bretagna abbandonò il gold standard.
In una serie di articoli del 1934 Polanyi fa il punto sulla trasformazione corporativa, analizzando la riorganizzazione dell’industria britannica, l’intervento del governo e la posizione dei sindacati e del Partito laburista. Ben poco è rimasto delle lotte sociali del primo quarto di secolo, egli nota. Mentre i conservatori sembrano condividere l’interesse per la pianificazione, le Trade Unions e i laburisti non rappresentano più una “tendenza socialista”, ma solo “gli interessi corporativi di particolari categorie di lavoratori”, entro i limiti segnati dalle scelte cosiddette tecniche delle direzioni aziendali e dal vincolo del profitto.
Sempre nel 1934, Polanyi pubblica nel periodico New Britain, che glieli aveva richiesti, una serie di articoli sul concetto di corporativismo e sulle varie forme in cui esso viene proposto o attuato (fra di essi, il cap. 6, il cap. 7 e il cap. 8 del presente volume). Agli estremi ci sono il fascismo e il guild socialism; in mezzo, ad esempio, la teoria di Rudolf Steiner e il programma del movimento New Britain, di cui l’omonimo periodico era emanazione, di uno “Stato tripartito”, cioè organizzato mediante una triplice rappresentanza (economica, politica e culturale). Polanyi cerca di chiarire le diverse posizioni e le svariate ambiguità. A questo fine, egli fa riferimento a Marx (cfr. il cap. 9) e, come criterio fondamentale, all’atteggiamento riguardo alla struttura capitalistica della società e alla democrazia.
Oltre al caso inglese, gli articoli di Polanyi, in quegli anni, riguardano il fascismo, l’Unione Sovietica (p. es. cap. 11 e cap. 18), i problemi internazionali (p. es. cap. 16 e cap. 19). Nel cap. 15 si trova un accenno al tema dello “stretto intricarsi di eventi politici interni ed esterni”: gli schieramenti contrapposti in politica estera corrispondono alle soluzioni diverse e contrastanti di organizzazione sociale con le quali i singoli Paesi cercano di superare la “crisi epocale”. Con la crisi del sistema internazionale è aumentata l’importanza degli Stati, la cui politica estera dipende dall’orientamento politico dominante al loro interno – senza che, comunque, le vecchie “politiche di potenza” imperialistiche siano scomparse. Il tema della “guerra civile in campo internazionale” verrà sviluppato poco dopo da Polanyi in Europe To-Day (1937), in cui sono analizzati gli sviluppi della politica internazionale dai Trattati di pace alla Guerra civile spagnola. Tale tema trova un riscontro in Carl Schmitt, benché nel quadro di una posizione opposta, politicamente ed eticamente. È un tema importante anche per Eric Hobsbawm (Il secolo breve, 1995), il punto di vista del quale è invece simile a quello di Polanyi, non solo riguardo a tale tema, ma nel complesso della sua analisi della storia del Novecento.
Il New Deal è un’altra varietà di trasformazione che Polanyi descrive e commenta, visitando gli Stati Uniti. La politica promossa da Roosevelt gli interessa particolarmente in quanto unico tentativo di risolvere la crisi nella direzione di uno sviluppo e non di un regresso della democrazia. Egli nota che, prendendo tale direzione, si può contrastare la crisi mediante “un’amministrazione pubblica del benessere” (cap. 12), proprio nel Paese in cui la “separazione” – cioè l’autonomia – dell’economia è sancita costituzionalmente, mediante la sua esclusione dalle competenze del governo federale. Alcuni fra i suoi articoli riguardano, infatti, i conflitti fra Roosevelt e la Corte Suprema.
Fra le disparate opinioni sul New Deal, quella di Polanyi è tanto equilibrata quanto acuta – e autentica, per così dire, dato che si rifà anche a una dichiarazione del Segretario di Stato per l’Agricoltura Henry Wallace. Si tratta, egli commenta, di un rinnovamento istituzionale che, pur sostenendo che “l’attività economica è una faccenda pubblica” e che lo Stato deve garantire i diritti e il benessere dei lavoratori, non implica la fine del capitalismo, anzi gli allunga la vita (cap. 13). Egli, d’altra parte, è convinto, come sempre, che è piuttosto il capitalismo che mal sopporta riforme che vadano in questa direzione, e tende a combatterle, anche a prescindere dall’eventualità che esse minaccino la sua esistenza, e addirittura quando potrebbero giovargli.
Riguardo al New Deal è degna di nota la divergenza fra il punto di vista di Polanyi e quello di Schumpeter, il quale non approva la politica di Roosevelt ritenendola erroneamente distruttiva per “il sistema dell’impresa privata”. Anche dopo la guerra, attenendosi piuttosto al senso comune che alla realtà dei fatti, Schumpeter sostiene che la decadenza di tale sistema dipenda da interventi politici quali: le politiche di stabilizzazione; la redistribuzione del reddito; il controllo pubblico sui mercati finanziari, valutari e del lavoro; la creazione di enti pubblici per provvedere a bisogni sociali; la legislazione sul welfare (“The March into Socialism”, American Economic Review, 1950).
Non solo Polanyi allude a reazioni del genere al New Deal, ma ancora prima della morte di Roosevelt rileva sintomi di un cambio di rotta, che porterà gli Stati Uniti ad assumere consapevolmente il ruolo di leader in un ‘cortile di casa’ esteso al mondo intero, con il sostegno dell’obsoleta, ma strumentalmente utile, fede nei principi del capitalismo liberale ormai scomparso (cap. 19). Nel 1947 iniziò la ‘guerra fredda’; poco dopo, all’interno, la difesa dei principi liberali giustificava la deriva illiberale del maccartismo. Nel finale della Grande trasformazione (di cui nel cap. 20 si offre la versione rivista da Polanyi rispetto a quella originaria adottata dall’edizione italiana dell’opera) si trova una difesa dei diritti civili e del “diritto alla non conformità”, che sembra prevedere tale successiva evoluzione.
Deluso dagli sviluppi americani, Polanyi trasferì le sue speranze nell’Inghilterra laburista del dopoguerra. La fedeltà ai suoi ideali non gl’impediva, tuttavia, di ritenere realisticamente che il riformismo laburista, pur coraggioso in rapporto alle difficoltà finanziarie del Paese, non sarebbe stato il primo passo sulla via di un’organizzazione sociale radicalmente diversa (cfr. p. es. “British Labour and American New Dealers”, The Leeds Weekly Citizen, 1947). Le minoranze della sinistra laburista, in cui egli tendeva a riconoscersi – quali l’Independent Labour Party e poi la Socialist League – avevano sempre contato poco. Ora l’Atlantic Charter del 1941 e l’indispensabile aiuto finanziario statunitense gli apparivano come segni del probabile prevalere dell’universalismo liberale sulla “pianificazione regionale” (cfr. cap. 19). La sua stessa concezione del “dilemma” – cioè delle contraddizioni insuperabili all’interno della società di mercato capitalistica – gli suggeriva, inoltre, che le riforme avrebbero incontrato molto presto il loro limite.
Ai nostri giorni, una “integrazione” dell’economia nella società corrispondente all’ideale democratico di Polanyi appare più improbabile che mai. Molti decenni sono trascorsi dallo sviluppo del secondo dopoguerra, in cui i popoli colonizzati si liberavano e i lavoratori conquistavano diritti e benessere. Benché segnata da lotte sociali, anche quella fase restò saldamente all’interno del sistema capitalistico. Non mancò, comunque, la reazione, che cominciò a prevalere con la crisi degli anni Settanta; e come sempre – avrebbe probabilmente pensato Polanyi, se non fosse deceduto nel 1964 – emergeva la fondamentale “incompatibilità” fra capitalismo e democrazia.
Rispetto al successivo incontrastato trionfo del neoliberismo globale, in quegli anni restava tuttavia l’idea di un’alternativa, com’era sempre restata per Polanyi. Ad esempio, John K. Galbraith auspicava una crescita della “consapevolezza pubblica” che portasse lo Stato ad “emanciparsi” dalla soggezione ai “piani” sistematicamente predisposti dalle grandi imprese private e, nel loro interesse, dalla “tecnostruttura”. A questa condizione, sarebbe diventato possibile, per la pubblica amministrazione, perseguire “finalità pubbliche” (Galbraith, Economics and the Public Purpose, 1973).
In quale situazione ci troviamo, oggi? In una sua opera recente, Wolfgang Streek fa significativamente riferimento a Polanyi riguardo a questioni quali l’instabilità dell’economia e dei rapporti internazionali, l’accaparramento capitalistico di terre e beni comuni, il circolo vizioso delle politiche di austerità e di compressione dei salari, il consenso popolare a organizzazioni o a leader di estrema destra, la continua erosione della democrazia. Come Polanyi criticava il sistema aureo, così Streek rifiuta le regole e le politiche imposte dall’Unione Europea in quanto suggerite da un “fanatismo di mercato istituzionalizzato nella moneta comune” (Streek, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, 2013). Di nuovo, come Polanyi aveva indicato, strategie autoritarie vengono praticate in nome della libertà di mercato, nella prospettiva di una “governabilità hayekiana” (ibid.), cioè di una ‘libertà’ garantita da ‘forti’ istituzioni politiche, interne e internazionali.
Studi recenti confermano la fondatezza di una possibile storia del neoliberismo nel senso polanyiano della “trasformazione” dei modi in cui la società capitalistica si è riprodotta a partire dalla crisi del liberalismo ottocentesco, rinnovando le proprie istituzioni e via via sconfiggendo o prevenendo l’emergere di un’alternativa. Per esempio, nel libro recente di Quinn Slobodian (Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press, 2018) la storia del neoliberismo viene ricostruita, come nell’opera di Polanyi, a partire dalla crisi definitiva del liberalismo ottocentesco e dall’attualità dell’alternativa socialista intorno alla Prima guerra mondiale. Vengono considerate in particolare le idee e le iniziative che, da allora in poi, Mises e Hayek diffondono. Non si tratta – per il neoliberismo, successivamente in combinazione con l’‘ordoliberismo’ tedesco – di ridurre al minimo l’intervento statale, ma di renderlo il più funzionale possibile alla libertà di circolare e valorizzarsi del capitale, e ovviamente alla massima garanzia della proprietà privata. Ciò comporta l’esigenza – che Polanyi aveva delineato, dopo aver ricordato, nella Grande trasformazione, che la stessa diffusione originaria del “libero mercato” aveva richiesto “un enorme aumento di un continuo interventismo” politico – di un ordine globale che vincoli in tale direzione le decisioni dei singoli governi, e, all’interno di ogni Paese, di un assetto istituzionale capace di controbattere, magari di prevenire, i rischi dell’accesso democratico delle masse alla politica. Si è parlato in questo senso della ‘privatizzazione’ della politica e di istituzioni interne e internazionali non elette e quindi non responsabili, neanche formalmente, verso la generalità dei cittadini. Persiste, dunque, la tendenza crescente verso una società embedded nel suo sistema economico, che caratterizza, secondo Polanyi, le diverse fasi e forme dello sviluppo neo- o post-liberale.
Karl Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, a cura di M. Cangiani, Trieste, Asterios Editore, 2019, pp. 330, €19,00