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Italia, la lunga crescita è finita?

Centocinquant’anni di economia italiana riesaminati con nuovi dati e con uno sguardo che non si ferma al PIL, esplorando la complessità dello sviluppo, dei divari, degli squilibri e dell’attuale stagnazione del paese. Un’anticipazione dal libro di Ardeni e Gallegati ‘Alla ricerca dello sviluppo’.

L’Italia – come recita il felice titolo di un saggio di Vera Zamagni – nei centocinquant’anni tra il 1861 e il 2011 è passata «dalla periferia al centro». Il Paese è cresciuto: si è arricchito, istruito, ha visto un generale e vistoso miglioramento del tenore di vita della sua popolazione, la quale è aumentata per raggiungere un «plateau», dato l’aumento dell’invecchiamento e la diminuzione della natalità. Questo sviluppo, tuttavia, è avvenuto per fasi e negli ultimi decenni è sostanzialmente rallentato: poiché nulla è per sempre, esso può ancora tornare indietro, e questo libro investiga perché. Oggi il Paese sembra fermo, la sua economia non cresce, le sue prospettive paiono incerte, l’orizzonte vago: è questa la «fine» di una parabola, oppure è già iniziata una nuova fase? Eppure, dall’Unità d’Italia ad oggi, molta strada è stata percorsa, in termini di ricchezza prodotta, di qualità e tenore di vita, di benessere.

Reddito e ricchezza, com’è ovvio, influiscono profondamente sul tenore di vita, sui consumi e, quindi, sul benessere. Questo, tuttavia, non dipende solo dal reddito ed è il risultato di un insieme di fattori in cui istruzione, salute e condizioni di vita giocano un ruolo fondamentale, così come le infrastrutture – le scuole, gli ospedali, le strade, le reti idriche, elettriche e telefoniche, gli esercizi commerciali, insomma il «contesto» socio-economico – e le istituzioni, lo Stato e le politiche pubblici, nonché il capitale sociale e culturale. Come questi siano cambiati nel corso dell’ultimo secolo e mezzo e come abbiano influenzato l’evolversi dell’economia e della popolazione è l’oggetto di questo libro. Quando si guarda allo sviluppo economico di un Paese nel lungo periodo si predilige, solitamente, un indicatore – il prodotto interno lordo, PIL – che è ad un tempo una misura della ricchezza generata, della disponibilità di risorse utilizzabili per soddisfare i bisogni e, solo indirettamente, del «tenore di vita» della popolazione, ovvero quell’insieme che compone stili di vita, benessere e qualità del vivere. Guarderemo al reddito nazionale e alle sue misure, dunque, a come esso è variato negli anni, ma anche alle sue componenti, a come questo si è formato, di qua e oltre il PIL, a quegli indicatori che ne vanno al di là, per capire a che punto ci troviamo oggi e dove stiamo andando. Tuttavia, per fare questo, dobbiamo prima chiederci a quali numeri fare riferimento, in quanto anche i dati statistici disponibili – e le tecniche per produrli – sono cambiati nel tempo. 

La disponibilità di nuovi dati offre agli studiosi l’opportunità di esaminare vecchi fatti, interpretarli in modi nuovi e di rispondere alla domanda: in che misura queste nuove stime forniscono risultati contrastanti sulla crescita – specialmente nel periodo fino al 1945 – rispetto a quelli presentati nella letteratura precedente. In questo lavoro, dunque, vogliamo rivisitare la crescita e le sue determinanti lungo i centocinquanta anni e passa che sono trascorsi dall’Unità. Partendo dai dati di Baffigi, guarderemo, in primo luogo, se le stime rivedute forniscono prove sulla presenza di cambiamenti strutturali nell’aumento del PIL che possono suggerire una lettura alternativa delle fasi della crescita economica di lungo periodo dell’Italia, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione che vede iniziare lo sviluppo economico dell’Italia in quel preciso momento attorno all’ultimo decennio del XIX secolo. Il riferimento, qui, è alla questione del «decollo» che, in parte, pareva risultare dai dati allora disponibili. Inoltre, poiché il nuovo set di dati, insieme alla serie rivista del PIL pro capite, fornisce anche nuove stime della domanda e dell’offerta aggregata, sarà anche possibile valutare il contributo di queste alla crescita del prodotto e del reddito nazionale. Il PIL è certamente la statistica di maggior successo nella pubblicistica economica, ma è non esente da pesanti limitazioni. Non tanto perché le sue relazioni col benessere e il «tenore di vita» sono vaghe – in fondo il PIL misura per costruzione solo quei beni e servizi che passano per i mercati (escludendo così tutto ciò che viene autoprodotto o è frutto di liberalità) e non il buen vivir – quanto per l’impossibilità di tener conto di nuovi prodotti, di usare un paniere dei prezzi dei beni che non cambia né con l’inflazione, né con le variazioni di prezzo di un bene rispetto all’altro, né valuta ciò che prima della rivoluzione informatica veniva prodotto con un costo che ora è quasi nullo (si pensi alle telefonate, alla posta o alla musica). La misurazione non può che essere imprecisa – come chi voglia quantificare la cultura a litri o lo spazio-tempo a chili. 

Quando si valuta il PIL si fa riferimento al valore pro capite (il valore del PIL di un territorio diviso il numero dei suoi abitanti) tralasciando la sua distribuzione – ovvero come quel prodotto viene suddiviso e utilizzato dai suoi percettori – come, ad esempio, quella tra poveri e ricchi. Se ad esempio, il PIL aumentasse del 5% da un anno all’altro e questo andasse tutto ad una fascia della popolazione già ricca o fosse distribuito tra tutti, le due situazioni non sarebbero socialmente equivalenti. La distribuzione del reddito e del prodotto – tra individui e tra aree – è importante per valutare la crescita e i suoi effetti, quanto questa sia diffusa o concentrata, chi ne beneficia e chi no. E come si misura quella distribuzione è dunque cruciale. Gli economisti tendono ad usare indicatori quali, ad esempio, l’indice di concentrazione di Gini che misura la distanza tra la distribuzione personale effettiva del reddito e quella in cui ciascuno riceve la stessa quota di reddito. Questa, però, ignora la distribuzione interna alle classi di reddito. 

La distribuzione funzionale del reddito – quanto va ai fattori della produzione, lavoro e capitale – è un indicatore altresì importante, così come lo è la sua distribuzione territoriale (quanto ciascuna area contribuisce e ne riceve). Vi sono indicatori e punti di vista che vengono spesso e volentieri tralasciati, nell’analisi. Non è la sede qui, di chiedersi perché; possiamo limitarci a ricordare, ad esempio, che nonostante sia conclamata l’impossibilità di misurare il capitale nella teoria economica dominante, gli economisti ortodossi continuano a fingere che il problema non esista e a impiegarlo nei loro modelli. Non si tratta tanto del problema del «pollo di Trilussa» e della imprecisione dei dati aggregati medi. È che, da un lato, i moltiplicatori della spesa sono fortemente influenzati dalla distribuzione del reddito per cui una distribuzione a favore dei ricchi – che in proporzione spendono meno dei poveri – ne farà diminuire il valore. Mentre, dall’altro, famiglie, imprese e banche interagiscono tra loro anche al di fuori del sistema dei prezzi – cioè del mercato – producendo ciò che le scienze dure (la fisica, la chimica, la biologia, ma non l’economia) chiamano emergenza, letteralmente: ciò che emerge. Si perde, quando il tutto è più della somma, quel rapporto causa-effetto che sembrava una certezza nella fisica di Newton. 

L’impostazione prevalente, incapace di anticipare la crisi del 2008 come tutte quelle che l’han preceduta, è stata negli ultimi decenni messa in discussione e una nuova prospettiva è disponibile, secondo cui i mercati si evolvono spontaneamente verso una situazione instabile, anche se ogni singolo agente agisce nel proprio interesse. In questo caso, l’evento di attivazione diventa irrilevante, mentre il punto chiave è identificare gli elementi di instabilità. E questo ci porta anche a rivedere le misure statistiche. Il PIL, ad esempio, se disconnesso da altre misure riguardanti la sua distribuzione tra famiglie o aziende, non è molto informativo, in particolare circa la resilienza e la robustezza del sistema. Nel trattare di PIL, quindi, si dovrebbe tenere conto della sua distribuzione personale, funzionale e territoriale. Purtroppo, tanto ricostruire il PIL di 150 anni fa è operazione – come la definiva Fuà – di «archeologia statistica», quanto voler ottenere ex-post valori affidabili per distribuzione e luoghi è perlomeno azzardato. Nonostante tali limiti, l’analisi dell’economia di un Paese non può prescindere dal PIL e dalla sua dimensione: in questo libro proveremo ad individuare i momenti di espansione e di riduzione, le loro varie «cause», la loro diffusione territoriale, per comprendere come tutto ciò abbia influito sullo sviluppo. Di questo ci occuperemo nel capitolo 2 – ove guarderemo alla dinamica del PIL nel corso degli ultimi 150 anni e più – e nella seconda Parte del libro, in cui studieremo le componenti del PIL – quelle settoriali, dal lato dell’offerta, come quelle dal lato della domanda – e l’andamento della sua distribuzione. Nella terza Parte estenderemo l’analisi oltre il PIL per investigare il «benessere» dell’Italia e delle sue regioni, per guardare poi allo stato recente del PIL e dell’economia italiana e delle ragioni del suo sviluppo «bloccato». 

Cosa misura il PIL e come andare oltre Il PIL di un Paese è solo un indice della ricchezza prodotta oppure esso è in grado di dirci qualcosa, se pur rozzamente, sul benessere? Prima ancora di definire cosa si intenda per benessere, sappiamo che la nostra risposta è negativa: se vogliamo «vivere bene», non dobbiamo guardare, se non in parte, al PIL. In questo senso dobbiamo liberarci dal mito della crescita economica e concedere che il benessere è un concetto olistico, non un valore di mercato espresso dal PIL. L’idea stessa di PIL come indicatore di benessere presuppone che ci si trovi, di fatto, di fronte a una varietà infinita di bisogni. La produzione di beni e servizi aumenta la quantità (ma anche la varietà) di prodotto disponibile per soddisfare un numero crescente di esigenze. I bisogni cambiano nel tempo poiché nuovi bisogni vengono «indotti», creati ex novo. Ma se c’è un aumento dei «bisogni indotti», per soddisfarli bisogna produrre di più o diversamente; allo stesso tempo, con il mutare della tecnologia, può diminuire o cambiare l’occupazione – si può produrre di più con la stessa quantità di lavoro – e con essa il reddito generato e quindi la domanda aggregata, dato che le macchine non consumano. In questo modo, tuttavia, si crea un circolo vizioso. Se non vengono inventati nuovi bisogni, non ci saranno nuove richieste di prodotti o servizi per soddisfarli e, di conseguenza, nuove attività di produzione e nuovi posti di lavoro. Dal momento che, tuttavia, le risorse sono limitate, questa è una barriera alla crescita infinita – se la popolazione continua a crescere – che ci costringe a immaginare produzioni possibili senza passare la nostra vita nella ricerca di un PIL sempre maggiore per una sempre maggiore prosperità.

Accanto alla revisione dell’idea del PIL come misura della qualità delle nostre vite, siamo accompagnati dalla ricerca di soddisfacenti misure di benessere. Il PIL – il valore di beni e servizi prodotti e scambiati – descrive solo in parte la nostra vita. Le motivazioni di coloro che credono che il PIL sia una misura, per quanto approssimativa, di benessere sono in un certo senso circolari. Se ipotizziamo l’esistenza di un certo numero di bisogni e che il benessere dipende dalla capacità di soddisfarli attraverso la produzione di beni e servizi, allora più si produce – più cresce il PIL – più i bisogni sono soddisfatti. Naturalmente, c’è molto di più oltre questa visione del mondo semplicistica. Sebbene esista un insieme di beni primari, che soddisfano bisogni «essenziali», nuovi bisogni vengono costantemente creati e aggiunti. In breve, il PIL è un numero, ma non è neutro e valido per ogni stagione, poiché diverso in base al Paese e al momento storico. Il PIL pro capite viene solitamente utilizzato come indicatore del tenore di vita di un Paese e il suo aumento come indicatore del suo miglioramento. È prassi comune giudicare se la vita in un Paese è migliore della vita in un altro in base al livello di reddito (prodotto) pro capite. In questo senso, il tasso di crescita del PIL viene considerato come un indice della «salute economica» e della prosperità di una nazione, mentre andrebbe inteso come uno degli indicatori dell’economia di un Paese. Quando usiamo il PIL come misura delle nostre vite, commettiamo una serie di errori, per i diversi problemi relativi a ciò che il PIL misura. Visti questi problemi, da molti anni si stanno cercando indicatori che consentano di andare «oltre il PIL». Organizzazioni internazionali e nazionali e commissioni di studio hanno proposto indicatori alternativi. Da noi, ISTAT e CNEL dal 2013 utilizzano un indice composto da domini «oggettivi» e «soggettivi», il BES, Benessere Equo Sostenibile. Di questo si occupa, come detto, la terza Parte del libro, ove due capitoli illustrano un esercizio di applicazione del BES all’Italia dal 1861 e alle sue regioni dal 1871.

C’è poi il tema della produttività e, latu sensu, dell’innovazione – a ottenere di più con meno – e di come questa abbia contribuito e stia (o meno) contribuendo alla crescita del reddito nazionale. L’Italia di oggi, è stato rilevato, ha un «problema di crescita» e la spiegazione è solitamente attribuita all’asfittica produttività. Se la produttività aumentasse, i fattori sarebbero più produttivi e, di conseguenza, aumenterebbero sia il PIL totale che quello pro capite. Sarebbe pure vero se ad un aumento della produttività fisica e in valore corrispondesse una crescita delle vendite, ma questo può accadere se, cioè, tutto ciò che viene prodotto è venduto. Come già scriveva a suo tempo Marx, il capitalismo deve affrontare il problema di vendere ciò che produce. Trasformare le merci in denaro assomiglia ad un «salto mortale» più che ad una passeggiata. Come vedremo, l’Italia nel complesso sembra resistere bene sulle posizioni conquistate nel secondo dopoguerra. 

A ben vedere, quando si procede all’analisi per territori la rete si frammenta in varie «zone», in cui emerge una zona «arretrata», simile ai Paesi a sviluppo recente europei, una zona «di mezzo», e una «potenzialmente avanzata». Il tema è non tanto quello di produrre maggiori quantità di beni e servizi, quanto di produrne di «nuovi» – ibridando tecnologie, reti e conoscenza – sapendo che il nuovo nasce dal vecchio per cui più prodotti siamo in grado di ottenere più facilmente ne produrremo di nuovi, aumentando in tal modo la domanda di lavoro che diffonde così il «benessere». Il che ci porta a una domanda: come si sta preparando l’economia italiana alla rivoluzione 4.0? Come vedremo, l’economia italiana è in forte sofferenza per molte ragioni, tutte superabili seppur con tempi lunghi. Ma il basso aumento della produttività «in valore» rischia di essere il fattore decisivo, senza dimenticare la scomparsa della grande impresa e l’asfittica spesa in ricerca del nostro sistema. Un tallone d’Achille dell’economia italiana è infatti quello delle poche risorse dedicate alla ricerca – le nostre aziende investono poco – e la difficoltà di lasciarsi indietro per sempre lo stigma iniziale di paese a sviluppo tardivo – da cui dualismo, assenza di grandi imprese e un ruolo passivo dello Stato, non innovatore, ma neanche regolatore (mafie, corruzione ed evasione fiscale) – insieme alla scarsa educazione civica dei suoi cittadini (come ebbero a rimarcare Einaudi e Ciampi, la natura della crisi si deve tanto ai fattori economici che a quelli culturali e spirituali) cui si aggiunge una realtà distributiva (di genere, generazioni e luoghi) che è un conflitto permanente. Si consideri poi che l’innovazione nasce sì dalla ricerca e dalle sue ricadute, ma diventa effettiva solo se c’è domanda, ovvero se la si usa. L’occupazione non è data dall’equilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro, ma da quanta offerta aggregata verrà resa effettiva dalla domanda. 

Senza settori di alta tecnologia e uno Stato spesso latitante, come possiamo fronteggiare la rivoluzione tecnologica, la jobless economy, la rottura del legame tra crescita ed occupazione? Che fare? La sezione conclusiva di questo libro suggerisce alcune indicazioni.

Pier Giorgio Ardeni, Mauro Gallegati. Alla Ricerca dello Sviluppo. Un viaggio nell’economia dell’Italia unita, con prefazione di P.L.Ciocca, 308 pp., Il Mulino.