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Italia, dov’è finita la protesta?

Di fronte alla crisi e alle politiche di austerità, sembra che l’Italia non risponda più con grandi manifestazioni di protesta. Il rapporto con la politica si allontana e cambiano le dinamiche dei movimenti sociali nel nostro paese

Di fronte alle dure politiche di austerity che, già da tempo ma oggi con maggiore vigore, colpiscono ampie fasce di popolazione (“nove su dieci”, dimostra Mario Pianta), una delle domande spesso rivolte agli studiosi di movimenti sociali (così come ai loro attivisti) è: perché a fronte di una sfida così grande, la mobilitazione si mantiene limitata? Perché – diversamente da Spagna, Grecia e Stati Uniti, ma anche dall’Islanda prima di loro – c’è apparentemente così poca protesta?

Occorre innanzitutto osservare che la protesta c’è, cresce e si focalizza sui temi dei diritti sociali intrecciate con domande di democrazia reale. Una ricerca che abbiamo condotto (con Lorenzo Mosca e Louisa Parks) sulle proteste riportate su un quotidiano nazionale nel 2011, dimostra una mobilitazione non solo elevata, ma anche concentrata su temi sociali. Quasi la metà degli eventi di protesta riportati coinvolge lavoratori (in condizioni occupazionali stabili), oltre la metà se si aggiungono i precari (tabella 1). Più di un quinto coinvolgono studenti. Inoltre, se i sindacati sono ben presenti nella mobilitazione, attori importanti della protesta sono anche gruppi informali di movimenti sociali, centri sociali occupati e associazioni di vario tipo (tabella 2). Non a caso, le statistiche sugli scioperi segnalano un aumento del 25% nell’ultimo anno.

Tabella 1. Tipo di gruppo sociale coinvolto nell’evento di protesta (risposte multiple, percentuale di casi)

Gruppo sociale

%

Lavoratori

47,3

Studenti

21,8

Cittadini (in generale)

13,6

Donne

10,9

Lavoratori precari

10,0

Immigrati o minoranze etniche

10,0

Intellettuali/artisti/giornalisti

10,0

Altri

10,0

Totale (N)

147

Tabella 2. Tipo di organizzazione coinvolte nell’evento di protesta (risposte multiple, percentuale di casi)

Tipo di organizzazione

%

Gruppi di base

39,4

Sindacati

36,7

Partiti politici

33,9

Donne

15,6

Centri sociali

10,1

Attori istituzionali

5,5

Altri

3,7

Totale (N)

158

Se gli episodi di mobilitazione anti-austerity sono numerosi, è però vero che, negli ultimi mesi, sono mancate le grandi manifestazioni che avevano contribuito alla caduta del governo Berlusconi, segnalando tra l’altro che politiche neoliberiste non potevano essere imposte efficacemente da un capo di governo libertino, e variamente delegittimato. Il passaggio da Berlusconi a Monti non ha segnalato un mutamento di indirizzo delle politiche pubbliche, ma l’acquisto (a prezzi modici, a dire il vero) del sostegno ad esse di quella che era stata l’opposizione politica. Se il 15 ottobre 2011, con una grande capacità di mobilitazione, ha rappresentato un’eccezione, la sua evoluzione non ha facilitato la ripresa di un processo di aggregazione nella protesta – tutt’altro.

Una prima ragione della difficoltà nel mettere in rete le mobilitazioni esistenti può essere individuata nella crisi stessa. Ripetutamente, la ricerca sui movimenti sociali ha sottolineato che non è quando c’è più privazione (né assoluta, ne relativa) che la protesta aumenta, ma piuttosto quando maggiori risorse sono disponibili per chi vuole contestare le decisioni di chi governa. Già gli studi sul movimento operaio hanno rilevato che gli scioperi crescono con la piena occupazione, non quando aumenta la disoccupazione. Se l’insicurezza scoraggia l’azione collettiva, l’effetto depressivo della crisi non può che essere accentuato dal nuovo tipo di mercato del lavoro, e per le nuove figure produttive meno protette sul mercato del lavoro e sul luogo di lavoro. Chi è precario ha, certamente, più difficoltà a mobilitarsi in difesa dei suoi diritti, perché è più ricattabile, ha meno tempo libero, e spesso mancano gli stessi luoghi fisici di aggregazione che erano stati così importanti per il movimento operaio.

Se questo tipo di spiegazione, diciamo strutturale, ha qualche granello di verità, non ci aiuta però a capire perché in Spagna, Grecia, o negli Stati Uniti (ma anche in Italia in altri momenti) i gruppi più colpiti dalla crisi economica e dalle crescenti diseguaglianze prodotte dalle politiche neoliberiste (peraltro responsabili di quella stessa crisi) si sono mobilitati in momenti di protesta ampia e visibile (dagli Indignados a Occupy). I precari hanno, tra l’altro, in Italia protestato in maniera ampia e visibile, in particolare nella prima metà dello scorso decennio.

La ricerca sui movimenti sociali ci offre un’altra spiegazione, più specificamente applicabile al caso italiano. La protesta, per crescere, ha bisogno di alcune opportunità politiche. Fra di esse, fondamentale per i movimenti di sinistra è la posizione di potenziali alleati come partiti e sindacati, che sono importanti per estendere la mobilitazione, sia per le risorse logistiche che possono offrire sia, soprattutto, per la possibilità di accrescere l’influenza politica di chi protesta. È contro governi di centro-destra che la protesta di massa è stata più consistente è visibile, quando ha trovato il sostegno di partiti e sindacati. Ciò è tanto più vero in Italia dove, nonostante reciproche critiche, i rapporti tra movimenti e partiti di sinistra (quando c’erano) erano sempre stati intensi.

Se questi alleati c’erano contro Berlusconi, un governo di grande coalizione come il governo Monti ha drasticamente ridotto le opportunità di alleanze politiche. Non solo partiti che votano per il governo neoliberista e le sue politiche sarebbero alleati poco credibili per chi a quelle politiche si oppone, ma il governo in carica è anche riuscito a propagare efficacemente la sua auto-immagine di “governo tecnico”.

Che questa auto-rappresentazione abbia pochi appigli nella realtà è evidente, tra l’altro guardando alle carriere della maggior parte dei ministri all’interno di istituzioni non certo neutrali rispetto alle scelte politiche, così come nelle politiche di deregolamentazione, privatizzazione, e riduzione della volontà e capacità dello stato di intervenire a ridurre le diseguaglianze prodotte dal mercato.

Ma è anche evidente che l’autorappresentazione come governo tecnico abbia attecchito sulla stampa e oltre. Non solo i principali giornali nazionali inneggiano acriticamente al “super Mario”, ma istituzioni come quelle accademiche, che avevano in passato gelosamente custodito un’immagine di neutralità politica, offrono oggi, spesso e volentieri, un palcoscenico politico al capo di un governo che si autodefinisce tecnico, palcoscenico utilizzato poi per fare discorsi prettamente politici e ideologicamente neoliberisti.

Questa anomalia italiana contribuisce certamente a spiegare la difficoltà di mettere in rete i tanti rivoli della protesta – che pur, appunto, ci sono. Questa resistenza diffusa potrebbe comunque contribuire a una aggregazione e politicizzazione delle mobilitazioni, non solo attraverso la contestazione di specifiche politiche, ma anche sottolineando la natura – politica e neoliberista – di questo governo.