Una storica telefonata tra il neopresidente iraniano e Barak Obama riapre, dopo più di trent’anni, il dialogo tra i due paesi. La migliore occasione di pace da molti anni
Una telefonata, e un lancio di uova (e una scarpa) hanno fatto scalpore sui media internazionali, a concludere una settimana senza precedenti nelle relazioni tra Stati uniti e Iran. La telefonata è quella che il presidente degli Stati uniti Barack Obama ha fatto al suo omologo iraniano Hasan Rouhanì, raggiungendolo a New York mentre si preparava a volare in patria dopo una intensa visita alle Nazioni Unite: i giornali iraniani hanno ribattuto le loro prime pagine, quella notte, per non mancare la notizia subito definita “storica”, visto che era dal 1979 che un presidente iraniano e uno americano non si rivolgevano la parola.
Il lancio di uova è invece quello che ha accolto il medesimo Rouhani al suo arrivo all’aeroporto di Tehran: per la precisione due uova e una scarpa, una contestazione inscenata da una sessantina di persone, hanno riferito i giornalisti presenti, mentre altri manifestanti, forse 200, erano andati ad acclamare il presidente che ha riaperto le comunicazioni con l’America. “Morte all’America”, “mai arrendersi” urlavano i primi; “grazie Rouhani”, “lunga vita all’uomo del cambiamento”, gli altri. Quando il presidente si è allontanato, protetto dagli uomini della scorta, i contestatori se ne sono andati su alcuni autobus, di quelli azzurrini di proprietà del servizio pubblico (riferisce la corrispondente del Financial Times).
Qualche decina di persone con due uova sono un piccolo episodio, dice poco sull’animo degli iraniani in un momento di svolta nel loro paese. Ma di rado queste manifestazioni sono spontanee, e il fatto che la contestazione sia avvenuta (c’erano straordinariamente pochi poliziotti sabato all’aeroporto di Tehran, notava il corrispondente del New York Times) conferma che la svolta impressa dal presidente Rouhani ha molti nemici nell’establishment iraniano, e forse dice che le fazioni contrarie all’apertura si stanno organizzando. Ad accogliere il presidente al suo ritorno però era andato l’anziano ayatollah Velayati, il più stretto consigliere del Leader supremo Ali Khamenei: nella “cremlinologia” della Repubblica islamica è la conferma che i passi intrapresi da Rouhani hanno il pieno appoggio del Leader.
Ricapitoliamo. L’elezione del presidente Hasan Rouhani ha trasformato l’intero panorama socio-politico in Iran. In appena due mesi (l’insediamento è avvenuto in agosto), l’atmosfera nel paese è cambiata: una certa apertura nel clima culturale e sociale, gesti come quello di riaprire la Casa del cinema, la nomina di persone vicine ai riformisti nella squadra di governo, la scarcerazione di alcuni noti detenuti politici. Soprattutto, il paese comincia a dare segni di fiducia in una possibile ripresa economica (oggi l’Iran è in profonda crisi, la valuta nazionale ha perso metà del suo valore in un anno, l’inflazione è al 42% secondo cifre ufficiali, le classi medie faticano ad arrivare a fine mese, le imprese chiudono, un giovane di 4 non ha un lavoro: il principale banco di prova del nuovo governo sarà proprio questo). Alla crisi economica però contribuiscono in modo determinante le sanzioni internazionali che di fatto assediano l’Iran, in particolare sul settore petrolifero e contro il sistema bancario, e il presidente Rouhani è stato votato proprio per questo: per mettere fine all’isolamento internazionale del paese.
L’insediamento di Hasan Rouhani ha suscitato in Iran un clima di speranza che ricorda l’entusiasmo esploso per Mohammad Khatami nel 1998: ma Rouhani non è un riformista. 64 anni, credenziali rivoluzionarie impeccabili (era capo della difesa aerea durante la guerra Iran Iraq negli anni ’80), è considerato un conservatore moderato e pragmatico. Come capo del Consiglio di difesa nazionale, nel 2003 (durante la presidenza Khatami) ha firmato un accordo sul dossier nucleare con tre potenze europee. È un insider, uno che sa destreggiarsi nel sistema di potere iraniano. È considerato vicino al pragmatico ex presidente Hashemi Rafsanjani, che ha dato un appoggio decisivo alla sua candidatura presidenziale. Ha avuto anche l’appoggio di Khatami, l’unico leader riformista non agli arresti. Ha avuto infine anche l’appoggio del Leader supremo, il quale deve aver deciso che l’isolamento del paese non giova alla sopravvivenza del sistema, né gli giova la ferita aperta nella società iraniana dalle contestate elezioni presidenziali del 2009, quando un movimento di protesta ha lanciato una sfida senza precedenti al sistema nato dalla rivoluzione islamica del 1979.
Su questo punto sono venuti segnali chiarissimi: nelle ultime settimane sono stati scarcerati alcuni detenuti politici di spicco arrestati dopo il 2009, tra cui l’avvocata Nasreen Sotoudeh, ed è stata annunciata un’amnistia per altre decine. Secondo fonti iraniane accreditate, molto presto saranno liberi anche i leader di quel movimento, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi (la giurisdizione del loro “caso” è già stata trasferita dall’ultraconservatrice magistratura al Consiglio di sicurezza nazionale).
Sul piano internazionale, la nomina di Javad Zarif a ministro degli esteri segnala che la priorità di Rouhani è migliorare l’immagine internazionale dell’Iran e avviare un dialogo con l’Occidente. Già ambasciatore all’Onu tra il 2002 e il 2007, Zarif è stato una figura chiave nei negoziati sul nucleare ed è considerato uno dei migliori diplomatici iraniani. Nelle ultime due settimane il presidente e il suo ministro degli esteri hanno parlato di dialogo in numerose occasioni pubbliche e interviste, e Rouhani ha scambiato lettere con l’omologo Barack Obama: la stampa iraniana la chiama “diplomazia del sorriso”.
La svolta ha un consenso nazionale senza precedenti. Sul lato della società civile, lo testimonia la lettera firmata in agosto da 500 intellettuali, dissidenti e figure pubbliche, inclusi alcuni detenuti politici illustri: rivolta a Obama, la lettera chiede alla comunità internazionale di rispondere ai gesti di apertura iraniani, e di mettere fine alle sanzioni e a 35 anni di ostilità (http://www.payvand.com/news/13/sep/1173.html). Sul lato istituzionale, il Leader supremo ha fatto sapere in modo inequivocabile che Rohuani ha il suo pieno mandato a negoziare, e la responsabilità dei colloqui sul nucleare è stata attribuita al presidente (quindi al ministro degli esteri). È suonata curiosa alle orecchie occidentali la frase pronunciata dall’ayatollah Khamenei quando ha detto che la diplomazia iraniana dovrà mostrare verso l’occidente una “eroica flessibilità”: qualcuno l’ha liquidata come la solita ipocrisia, fumo negli occhi; altri come il segno che il Leader supremo è alle strette dopo anni di sanzioni e chiede un accordo. Secondo il giornalista dissidente Akbar Ganji, uno dei più acuti osservatori di questi tempi, l’offensiva diplomatica iraniana va vista piuttosto “nel contesto della strategia più complessiva di Khamenei (…) Non vuole l’Iran in conflitto con l’Occidente, né vuole che sia un vassallo degli Stati uniti. Sta indicando che il riavvicinamento è possibile, ma non al prezzo di abbandonare la resistenza iraniana all’egemonia occidentale” (su Foreign Affairs, 24 settembre): quello che Pensa Khamenei è piuttosto un riavvicinamento tra sistemi politici diversi, come avvenne tra Stati uniti e Cina. (http://www.foreignaffairs.com/articles/139953/akbar-ganji/frenemies-forever)
Con queste premesse e questo mandato politico il presidente Rouhani è arrivato a New York. Un primo bilancio della visita è senza dubbio positivo (e il contrasto con le apparizioni del suo predecessore, Mahmoud Ahmadi Nejad, è totale). In un’intervista a Christiane Amanpour della Cnn, Rouhani ha riconosciuto l’Olocausto come un grave crimine contro l’umanità. Quando ha preso la parola all’Assemblea generale dell’Onu i capi di stato occidentali sono rimasti ad ascoltare (solo i rappresentanti di Israele sono usciti dall’aula), al contrario di quanto accadeva con Ahmadi Nejad. Il presidente iraniano ha detto che è “nell’interesse nazionale” dell’Iran rimuovere ogni dubbio sul suo programma nucleare; Tehran quindi è favorevole a “impegnarsi da subito in colloqui che portino a risultati concreti in un arco di tempo preciso” e nel “mutuo rispetto” – anche se ha chiarito che l’Iran non rinuncerà al suo diritto ad arricchire uranio. Rouhani ha tenuto un tono duro, hanno osservato molti commentatori, e ha disertato la cena dove poteva avvenire la tanto anticipata stretta di mano con Obama. Ma un gelo trentennale non si cancella in pochi giorni (“un incontro tra presidenti ha bisogno di preparazione, e non c’è stato il tempo”, ha poi detto lo stesso Rouhani all’agenzia iraniana Fars), e al mancato incontro ha supplito la telefonata.
Dunque il dialogo è aperto. L’incontro a New York tra il ministro Zarif e il segretario di stato John Kerry (il primo incontro bilaterale tra ministri degli esteri di Usa e Iran dal 1979) fa sì che il negoziato sul nucleare, che riprenderà il mese prossimo a Ginevra, ora si svolge a livello ministeriale. Le premesse per un accordo ci sono, se ce ne sarà la volontà politica, come sanno tutti i diplomatici che hanno partecipato ai negoziati finora; la conversazione telefonica significa che “ora lo sforzo diplomatico per il dialogo ha il coinvolgimento diretto di entrambi i presidenti: un eventuale fallimento li chiamerebbe in causa personalmente, quindi sono più impegnati a farne un successo”, osserva Trita Parsi, fondatore del National Iranian American Council. Né si tratta solo del dossier nucleare – ed è ragionevole pensare che contatti diplomatici discreti tra Iran e Stati uniti siano molto più intensi di quel che appare, su questioni di reciproco interesse che vanno dalla questione siriana all’Afghanistan.
Il dialogo oggi è realistico perché è negli interessi sia del presidente Obama, sia della leadership iraniana, osservava l’ambasciatore Roberto Toscano, molto esperto dell’Iran (La Stampa, 26 settembre): ma è un dialogo che ha molti nemici, sia in Iran che negli Usa, sia nella regione mediorientale (dalla monarchia saudita a Israele, egualmente spaventati dall’eventualità di una ripresa di influenza politica di Tehran nella regione: il premier israeliano Benyamin Netanyahu, che lunedì scorso ha incontrato Obama, definisce Rouhanì un “lupo travestito da agnello” – e farà di tutto per condizionare il dialogo avviato – come ben spiega Daniel Levy su Foreign Policy www.foreignpolicy.com/articles/2013/09/27/the_obstructionist_benjamin_netanyahu_israel_iran).
In Iran le fazioni fondamentaliste sono ora in minoranza (a ulteriore conferma che il presidente Rouhanì ha il pieno appoggio del Leader e di gran parte dello schieramento politico interno, giovedì 2 ottobre il Parlamento ha approvato, 230 voti su 290, una mozione di appoggio alla sua politica estera): e però restano forti – lo testimoniano le uova all’aeroporto, e ancor più un editoriale di Hossein Shariat Madari, direttore dell’ultra-fondamentalista giornale Kayhan, secondo cui Rouhani “non ha ottenuto nulla” a New York e la telefonata con Obama è “la parte più deplorevole”.
Anche negli Usa del resto Obama avrà difficoltà a convincere il Congresso a revocare almeno parte della fitta ragnatela di sanzioni che stringe l’Iran, gesto necessario a seguire una via di dialogo. Il fatto è che, osserva lo studioso iraniano Nasser Hadian sul sito Iran Diplomacy, “sia a Tehran che a Washington criticare l’altro paese paga, politicamente”. [http://www.irdiplomacy.ir/en/page/1921748/Why+Iran+Is+Ready.html ].
Insomma: molti cercheranno di far deragliare il dialogo. E però, questa è la migliore opportunità di pace da molti anni.