Dalle vecchie cabine telefoniche utilizzate come scaffali per condividere libri alla app per perdersi nelle città. Interventi urbanistici dal basso in mostra a Chicago
“Vorrei che qui ci fosse…”. Una semplice etichetta adesiva su una saracinesca chiusa per far esprimere ai vicini i loro desideri sul futuro della strada dove i negozi stanno chiudendo i battenti. O una campagna a tappeto per abbellire con decorazioni fatte a maglia gli spazi urbani degradati. O ancora, un “chairbombing” per spalmare comodi salotti in posti dove l’autorità ha tolto anche le panchine, magari per cacciare via i barboni. Oppure, piccoli spazi recintati nei quali far valere diritti banali ma negati (anche quello di gironzolare senza far niente); un’app per perdersi, contro le tantissime ed efficientissime app che ci fanno trovare la strada, togliendo alle città ogni imprevisto e sorpresa; una piattaforma per capire e decidere insieme cosa fare del proprio quartiere, e soprattutto dei suoi spazi desertificati dalla crisi economica; un programma di mostre itineranti nelle proprietà rimaste vuote e sfitte dopo la crisi dei mutui del 2008; il riutilizzo delle vecchie cabine telefoniche abbandonate come scaffali condivisi in cui scambiarsi libri…
Sono solo alcuni esempi degli “interventi spontanei” tracciati, raccolti e organizzati in una mostra che ancora per qualche giorno si potrà vedere a Chicago, presso il Chicago Cultural Center (ma che resta visitabile e navigabile qui), “Spontaneus Interventions: design actions for the common good”. Organizzati e raccolti in una gamma di colori che ne definiscono il carattere prevalente (comunità-piacere-sostenibilità-economia-accessibilità-informazione), la mostra vuole portare l’attenzione sull’ondata di interventi dal basso, spontanei, “agopunturali”, che va caratterizzando molte città in tutto il mondo, e che ha attratto l’attenzione di urbanisti e architetti, che vedono in questo movimento diffuso i germi di una nuova era di intervento urbano, “temporaneo, di piccola scala, low-cost, fortemente localizzato, ideale per l’era della recessione”. Una rassegna di interventi già realizzati, da New Orleans a Chicago, da Los Angeles a New York, alcuni dei quali già replicati e diffusi in posti del mondo lontanissimi. Caratterizzati tutti da un forte uso dei social network e social media, sia nell’ideazione che nella ricerca dei fondi che nella divulgazione del progetto; ma anche da una vicinanza puntuale ai territori di partenza e a una forte carica di protesta rispetto agli spazi negati e chiusi dalla crisi parallela dell’intervento pubblico e privato. Con un “colore” predominante, il rosa assegnato alla “community”: se il tratto comune a tutti i progetti è infatti quello dell’azione militante (“design actions for the common good”), nella scelta sul carattere prevalente, fatta non dagli osservatori esterni ma dagli stessi protagonisti del progetto, è l’elemento della “comunità” a prevalere: il che fa risaltare, ha scritto Cathy Lang Ho, curatrice e responsabile del progetto nella sua presentazione per la Biennale Architettura di Venezia 2012, “il desiderio delle persone di entrare in connessione e la loro fede nel fatto che una comunità rafforzata è la base per la creazione di interventi urbani responsabili e di successo”.