Top menu

Ingiustizia e casinò. Biografia della crisi

Alle radici del crollo la crescente diseguaglianza e l’illusione di calcolare l’incertezza. La lezione magistrale a Roma Tre di Robert Skidelsky, biografo di Keynes

“Questo crescente divario tra ricchi e poveri è, secondo me, la vera crisi del nostro tempo. E’ una crisi economica, politica e umana.” Così lord Robert Skidelsky, economista noto come “il biografo di Keynes”, ha concluso ieri a Roma la sua lectio magistralis. Roma Tre, la terza e più giovane università di Roma, ha conferito al settantunenne lord la laurea honoris causa, e questo era il motivo formale della presenza al massimo grado di autorità politiche e accademiche. L’altro motivo, più sostanziale, è la grande crisi, che oltre a segnare una cesura nell’economia l’ha tracciata anche nella scienza economica. Così da un po’ i keynesiani girano il mondo come madonne pellegrine (per dire, pochi giorni fa il gotha della Luiss ha omaggiato Joe Stiglitz), mentre i chicaghiani e loro simpatizzanti fanno autocritica o svicolano.Qualche piccola nota di premessa: si inaugurava l’anno accademico, e il rettore Guido Fabiani non poteva non dire che tutti gli anni accademici sono assai a rischio, per i tagli del governo al sistema dell’università. Il ministro competente, Maria Stella Gelmini, non c’era, ma ha mandato il suo “referente omaggio” (sic). C’erano invece studenti, docenti, tecnici, popolo universitario vario. Sul palco, con le toghe, una sola donna tra una ventina di maschi. Arriva il presidente della Repubblica. Corazzieri, consegna del diploma, frasi di rito in latino, la lezione può cominciare. The continuing relevance of Keynes”, è il titolo scelto da Skidelsky: che infatti, a conferma di quella lunga durata, intreccia da subito la storia del pensiero economico con la lettura di quel che sta accadendo oggi. “L’opinione più diffusa sul recente crollo bancario è che sia stato causato dall’errata valutazione del rischio”. Opinione fallace, dice Skidelsky: parlare di “rischio” dà l’impressione di avere di fronte una serie di probabilità calcolabili; meglio invece parlare di “incertezza”, presenza irriducibile e incalcolabile nell’economia come scienza umana. Che però ha coltivato la pretesa di farsi scienza naturale; pretesa liquidabile così, usando le parole di Keynes sulla mela di Newton e la “mela umana”: “E’ come se la caduta a terra della mela dipendesse dalle motivazioni della mela, se vale la pena di cadere a terra, se la terra volesse la caduta della mela, e dai calcoli errati della mela su quanto dista il centro della terra”. Invece nulla sappiamo delle motivazioni della mela e di tutto il resto, dunque quelli sul futuro non sono calcoli ma scommesse: la concezione keynesiana dell’incertezza, le sue descrizioni delle bolle speculative e dello sviluppo del capitale come “sottoprodotto delle attività di un casinò” restano, per Skidelsky (e non solo per lui) “la migliore spiegazione teorica per il tracollo dell’autunno 2008”.Ma non la sola. Perché all’origine del crollo c’è anche l’esplosione della diseguaglianza, che ha terremotato la nostra struttura sociale ed economica; per capire bene cos’è successo, e cercare dei rimedi, dice il biografo di Keynes, abbiamo bisogno di intrecciare le teorie keynesiane con quelle neo-ricardiane, tentare di leggere insieme Keynes, il “salvatore” del capitalismo, e il grande economista italiano da lui portato a Cambridge (“nonostante il fatto che Sraffa provasse orrore per l’insegnamento”). La grande cesura si ha con gli anni ’80, è da allora che succede qualcosa di nuovo: le disparità di reddito tornano ad aumentare, fino a livelli “che erano normali negli anni ’20, ma che pensavamo fossero stati eliminati”. Nel mondo occidentale, per la prima volta “il livello mediano dei redditi è sceso come percentuale del prodotto interno lordo”. La diseguaglianza è aumentata tra mondo ricco e mondo povero, e all’interno del mondo ricco, per un concorso di cause: per “l’abbandono della politica della piena occupazione, per la deregolamentazione del sistema finanziario e la fine del controllo nazionale sui capitali”. Uno stato delle cose che ha posto le premesse della crisi: “il welfare state come base del contratto sociale è stato sostituito dall’accesso al credito”. I poveri hanno cercato protezione nell’indebitamento, sono entrati nel casinò, alimentando bolle su bolle, fino al crollo e a una crisi “economica, politica e umana”. Per superare la quale, ha concluso Skidelsky, “abbiamo bisogno di una nuova economia politica radicata in Keynes, ma che si ispiri ai neo-ricardiani, nonché di un modo più umano per mettere in atto la scienza economica”. E di un grande coraggio politico, ha aggiunto a braccio.

Il testo integrale della lezione di Robert Skidelsky è sul sito di Roma Tre