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Inflazione e salari. Come affrontare cause e conseguenze

In Italia le politiche per affrontare l’inflazione si sono limitate ai sussidi per famiglie e imprese, senza affrontare le cause profonde nei mercati dell’energia e neanche le conseguenze sulla caduta dei redditi reali, la contrattazione salariale, l’aumento delle disuguaglianze.

Di fronte all’inflazione – arrivata a novembre 2022 all’11.8% in Italia – le dimensioni quantitative degli interventi del governo Draghi e ora del governo Meloni sono state rilevanti, pari al 3% del PIL nel 2022, ma sono stati realizzati soprattutto attraverso sussidi a imprese e famiglie, senza affrontare le cause primarie e le conseguenze profonde dell’inflazione sul sistema economico, sulla distribuzione dei redditi e sulle disuguaglianze. 

Le cause dell’inflazione

L’inflazione italiana è partita dall’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, iniziato a fine 2021 e esploso con la guerra in Ucraina e con la crescente volatilità dei prezzi nei mercati internazionali, che hanno raggiunto a marzo 2022 il picco del 44,3% nell’Area Euro e del 51,5% in Italia. Diverse sono le cause profonde della crisi dei prezzi dell’energia.

In primo luogo ci sono questioni strutturali dell’economia italiana ed europea: un modello di sviluppo ad alta intensità di energia non sostenibile sul piano ambientale, gli investimenti limitati in energie rinnovabili – solare, eolico, idroelettrico -, la dipendenza dalle importazioni dalla Russia e dal Medio Oriente, tutti fattori che hanno amplificato gli effetti inflazionistici dei prezzi dell’energia.

In secondo luogo c’è la dimensione fortemente politica degli accordi internazionali per la fornitura di beni energetici; la politica estera dei paesi europei si è spesso costruita su strategie di approvvigionamento energetico e la guerra in Ucraina ha interrotto una politica pluridecennale di forniture dalla Russia. Con i nuovi accordi per forniture da Stati Uniti e paesi arabi si sta ridisegnando la mappa delle alleanze politico-militari.

In terzo luogo ci sono poi seri problemi di funzionamento dei mercati internazionali dell’energia, dominati da poche grandi imprese multinazionali con un forte potere oligopolistico nella determinazione dei prezzi, in cui la logica della speculazione finanziaria e delle posizioni di rendita prevale sull’efficienza dei mercati. Già nel febbraio 2022 un articolo di Leopoldo Nascia (La manopola del gas e la finanza) spiegava le distorsioni e l’inefficienza dei mercati internazionali dell’energia e l’assenza di politiche – europee e nazionali – capaci di intervenire per tutelare l’economia dall’instabilità e limitare gli spazi per speculazioni finanziarie e super-profitti delle imprese energetiche.

Su tutti e tre questi fronti, a un anno dall’inizio dell’accelerazione dei prezzi dell’energia, le iniziative prese dall’Europa e dall’Italia sono state molto modeste: non si sono affrontate le cause profonde della vulnerabilità della nostra economia ai prezzi dell’energia.

L’iniziativa principale del governo di Mario Draghi, ripresa poi dal governo Meloni, è stata la proposta all’Europa di introdurre un tetto massimo dei prezzi del gas in tutta l’UE, al fine di limitare la speculazione sui prezzi energetici nel mercato di Amsterdam. Le resistenze degli altri paesi, a cominciare dalla Germania e dall’Olanda, hanno impedito l’introduzione di tali misure. Un maggiore controllo a livello europeo sulla definizione dei prezzi di gas ed elettricità sarebbe uno strumento essenziale per riportare l’inflazione sotto controllo.

Un modesto intervento è stato poi tentato di fronte ai super-profitti delle imprese energetiche. Nel gennaio 2022, il governo Draghi ha introdotto un aumento delle imposte sulle aziende del settore che hanno beneficiato dell’aumento dei prezzi dell’energia. Tale misura ha stabilito un’aliquota aggiuntiva del 10% per le società che hanno aumentato i loro profitti di almeno il 10% o di almeno 5 milioni di euro, da ottobre 2021 a marzo 2022 rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. L’aliquota è stata poi aumentata al 25% e la tassazione è stata prorogata. Tuttavia a novembre 2022 le entrate fiscali ottenute sono state ben al di sotto delle stime di 10,5-11 miliardi suggerite dall’Ufficio parlamentare di bilancio.

Le politiche finora adottate non hanno cambiato la struttura e le modalità di funzionamento dei mercati dell’energia e dell’elettricità. In Italia esse sono il risultato delle politiche di privatizzazione degli anni ’90, con alcune imprese pubbliche che operano accanto a quelle private in un mercato regolato da una debole autorità pubblica. Finora non è emersa alcuna discussione sulla ri-nazionalizzazione delle aziende energetiche chiave – un’iniziativa presa in altri paesi europei – e questa non sembra essere una prospettiva considerata dal nuovo governo Meloni. 

Anche per le aziende in cui lo Stato italiano è l’azionista di maggioranza – come ENI ed ENEL – la proprietà pubblica non ha spinto per attuare strategie commerciali diverse da quelle private volte a ottenere i super-profitti consentiti dall’impennata dei prezzi energetici. Non c’è stato alcun tentativo di fissare un tetto massimo ai prezzi per i consumatori o per le imprese – com’è avvenuto in altri paesi – e non è prevista una riforma delle attuali forme di debole regolamentazione del mercato. Non si parla di una politica industriale che miri a interventi diretti nei settori dell’energia e dell’elettricità. Questa mancanza di interventi “dal lato dell’offerta” su mercati che mostrano di operare in modo gravemente inefficiente e l’assenza di una politica industriale sull’evoluzione del sistema produttivo del Paese è la debolezza principale delle attuali politiche economiche. 

Le conseguenze sulla distribuzione del reddito 

L’aumento dei prezzi colpisce soprattutto i lavoratori dipendenti a reddito fisso e nei primi nove mesi del 2022 i salari reali hanno perso 6,6 punti percentuali. Gli aumenti dei prezzi concentrati sui beni energetici e alimentari colpiscono di più le fasce della popolazione a più basso reddito, che a questi beni dedicano una quota più alta dei propri consumi.

Le politiche del governo non hanno sostenuto i salari nominali, ma sono intervenute con “bonus” per compensare alcuni effetti negativi sui redditi reali. Le dimensioni dei sussidi alle famiglie sono state rilevanti – 17 miliardi di euro nel 2022 – ma restano inadeguate a tutelare i redditi reali. I “bonus” sono stati destinati in primo luogo alle famiglie con redditi più bassi (i “bonus” sociali ed energetici e l’adeguamento del 2% delle pensioni). Secondo uno studio dell’UPB (Audizione parlamentare, qui in pdf), che divide le famiglie italiane in decili sulla base della loro spesa, le misure governative sono state in grado di compensare il decile più povero di famiglie per l’impennata dei prezzi tra giugno 2021 e settembre 2022. Le politiche hanno limitato l’aumento del costo della vita all’1,3% per il primo decile della popolazione (più povero), in confronto ad un aumento medio del 3,7% e ad un aumento del 3,8% delle spese del decimo decile (più ricco). In altre parole, grazie alle misure governative l’onere per le famiglie più povere è stato limitato a circa un terzo rispetto a quello affrontato dalle famiglie più ricche. 

Altre misure, tuttavia, come la riduzione dell’Iva, delle accise sul gas e sull’elettricità e l’eliminazione degli oneri generali di sistema, danno maggiori benefici a chi spende di più, e gli effetti sono più rilevanti per le fasce più ricche della popolazione. Lo studio dell’UPB evidenzia che le pressioni inflazionistiche dall’estate 2022 e l’aumento dell’inflazione ‘di fondo’ stanno riducendo l’efficacia redistributiva delle misure adottate per i gruppi di reddito più basso.

Tutti gli interventi di fronte all’aumento dei prezzi sono stati finanziati da risorse pubbliche, con minori entrate o maggiori spese. Il governo di Mario Draghi ha utilizzato le risorse di bilancio esistenti, senza realizzare spesa in deficit. Il governo di Giorgia Meloni prevede di spendere altri 10 miliardi di euro per compensare gli aumenti dei prezzi negli ultimi due mesi del 2022. Queste misure estendono la stessa serie di sussidi e strumenti introdotti dal governo precedente. Tuttavia, la protezione dei redditi reali e dei livelli di consumo degli italiani più poveri è minacciata dalla decisione dei partiti di destra di ridimensionare il programma di Reddito di cittadinanza, che è stato uno strumento fondamentale per sostenere i gruppi sociali più poveri.

Inoltre le risorse di bilancio necessarie per attuare ulteriori misure anti-inflazione sono limitate dalla prospettiva di un forte rallentamento dell’economia nel 2023 e dal maggiore onere degli interessi sul debito pubblico derivante dall’aumento dei tassi di interesse deciso dalla BCE. 

I margini per misure che tutelino i redditi dall’inflazione attraverso sussidi pubblici saranno più ridotti nel 2023 e si pone il problema di interventi che possano rallentare il modo in cui l’inflazione si espande nel sistema economico e ridurre gli effetti negativi sui redditi reali per le categorie più vulnerabili. 

Per le imprese che hanno un qualche potere di mercato, l’inflazione consente di aumentare i propri prezzi e i profitti, e questo vale in qualche misura anche per alcune categorie di lavoratori autonomi. Misure di contenimento e controllo dei prezzi sono necessarie per evitare la diffusione degli aumenti dei prezzi in tutta l’economia e la rincorsa a beneficiare di posizioni di rendita nei mercati dove la concorrenza è limitata e dove c’è possibilità di collusione tra i produttori. 

Se guardiamo alla distribuzione del reddito, in contesti di inflazione, la divisione fondamentale che emerge è tra lavoratori dipendenti a reddito fisso – sia privati che pubblici – e chi ottiene i propri redditi da attività d’impresa o da un lavoro autonomo con qualche potere di stabilire di propri prezzi. 

Alcune richieste sindacali di più alti salari nominali sono già emerse nelle contrattazioni nel settore dell’auto e di Stellantis, dove i sindacati chiedono un aumento dei salari nominali di circa il 6,5% per il 2022. Tuttavia soltanto le categorie di lavoratori più organizzate, con una maggior sindacalizzazione e con contratti nazionali ad ampia copertura possono puntare a recuperare il proprio potere d’acquisto attraverso la contrattazione di salari nominali più alti, e occorre vedere se l’esito della contrattazione porta le imprese ad accordare gli aumenti richiesti.

Per ridurre le disparità di fronte agli esiti dell’inflazione, lo strumento generale per la tutela dei salari reali – in Italia come in tutto il mondo – è stato l’indicizzazione dei salari ai prezzi. Le regole attuali offrono una copertura molto limitata e non tutelano i redditi dall’inflazione energetica importata. Inoltre la proliferazione di lavori precari e non standard, non coperti da contratti collettivi, ha lasciato molti lavoratori senza alcuna protezione rispetto ai movimenti dei prezzi.

In Italia l’indicizzazione dei salari è una questione delicata. Dopo le lunghe lotte sull’adeguamento automatico dei salari ai prezzi negli anni ’70 e ’80, nell’1985 un referendum ha confermato la decisione del governo di abolire la ‘Scala mobile’, che assicurava l’indicizzazione dei salari e che per decenni aveva protetto i salari reali dei lavoratori. 

In questo contesto, il declino dei salari reali potrebbe stimolare l’esigenza di nuovi accordi nazionali di contrattazione e di sistemi di indicizzazione dei salari ai prezzi più efficaci. Un approccio che coinvolga governo, imprese e sindacati per definire una strategia adeguata di fronte agli aumenti dei prezzi e per la protezione dei salari reali sarebbe essenziale per difendere le condizioni di vita dei lavoratori e dei gruppi sociali più poveri. Tuttavia le organizzazioni dei datori di lavoro stanno avanzando richieste di ulteriori tagli fiscali, in particolare al costo del lavoro, mentre il Meloni non ha intenzione di impegnarsi in un tavolo con i rappresentanti di lavoratori e imprenditori. 

In Italia, per le politiche per affrontare l’inflazione si prospetta così una continuazione delle misure basate su sussidi pubblici a imprese e famiglie, senza considerare la possibilità di accordi tra le parti sociali per proteggere i salari reali e frenare l’aumento generalizzato dei prezzi. Quest’approccio rischia di lasciare senza protezione i gruppi di lavoratori più vulnerabili, in particolare quelli con salari più bassi, senza contratto nazionale, con lavori a tempo determinato o part-time. Le decisioni del governo Meloni di ridimensionare il reddito di cittadinanza rischiano di aggravare le condizioni di chi è senza lavoro e dei gruppi sociali più poveri.

Queste sfide sono comuni a tutti i Paesi europei e un coordinamento a livello UE nell’introduzione di misure per il controllo dei prezzi dell’energia e per la protezione dei salari reali di fronte all’inflazione sarebbe un fattore importante per limitare l’instabilità, tutelare le condizioni di vita e ridurre le disuguaglianze nei redditi reali.

NOTA:

Quest’articolo presenta alcuni risultati del nostro Rapporto per l’IMK ‘Inflation and counter-inflationary policy measures: the case of Italy n.83-4, December 2022, Hans-Böckler-Stiftung,  Ringraziamo Matteo Lucchese per il suo fondamentale supporto nell’analisi dei dati e per i suoi commenti. Un nostro articolo precedente è Inflazione e salari. I dati e le politiche.