Il Parlamento discuterà nei prossimi giorni il Documento di Economia e Finanza 2016, presentato la settimana scorsa dal Governo. Un documento che, come ormai avviene ogni anno, modifica al ribasso le previsioni sull’andamento strutturale della nostra economia. Rispetto agli aggiornamenti effettuati al Def 2015 l’ottobre scorso, il Governo ridimensiona le stime sulla crescita del PIL […]
Il Parlamento discuterà nei prossimi giorni il Documento di Economia e Finanza 2016, presentato la settimana scorsa dal Governo. Un documento che, come ormai avviene ogni anno, modifica al ribasso le previsioni sull’andamento strutturale della nostra economia. Rispetto agli aggiornamenti effettuati al Def 2015 l’ottobre scorso, il Governo ridimensiona le stime sulla crescita del PIL nel 2016 e nel 2017 all’1,2% e all’1,4% (dovevano essere all’1,6%) e rivede quelle sul deficit al 2,3% per il 2016 (anziché al 2,2%), all’1,8% per il 2017 (anziché all’1,1%).
Insomma l’ottimismo dello scorso autunno permane nelle dichiarazioni, molto meno nei dati aggiornati.
Quest’anno i Gruppi parlamentari dovranno anche decidere se accogliere o meno le richieste contenute in un testo di risoluzione proposto dai promotori della campagna Im(patto) sociale. Arci, Libera, Rete della Conoscenza e Sbilanciamoci!, con il sostegno del Forum del terzo Settore, hanno infatti scritto nero su bianco che occorre tornare a investire nel sociale chiedendo a tal fine che la spesa sociale sia esclusa dal patto di stabilità.
E’ aleatorio puntare l’attenzione sull’Im(patto) sociale delle scelte economico-finanziarie nazionali e comunitarie?
Sicuramente sì, almeno secondo quelle regole europee che identificano come obiettivo prioritario il contenimento della finanza pubblica. Da qui l’obbligo per gli stati europei di limitare il deficit pubblico al 3% e il debito pubblico al 60% del PIL e quello di raggiungere nel medio termine un saldo di bilancio vicino al pareggio. Deviazioni temporanee sono consentite solo in circostanze “eccezionali”. Come quella che ha indotto il Presidente della Commissione Europea Junker il 18 novembre 2015, dopo gli attentati di Parigi, a dichiararsi favorevole all’esclusione della spesa pubblica per la sicurezza dal patto di stabilità.
Secondo i promotori di Im(patto) sociale la vera causa del disastro economico e sociale provocato dalla crisi iniziata del 2008 risiede invece nel cattivo uso della finanza privata, come i Panama Papers hanno ricordato in questi giorni ai più distratti. La “sicurezza” di cui la maggior parte dei cittadini europei sentono la mancanza è innanzitutto quella sociale.
E allora se le politiche di austerità ammettono deroghe, perché non escludere dal patto di stabilità proprio la spesa sociale, bersaglio privilegiato dei tagli alla spesa pubblica in ogni angolo di Europa? Non è una provocazione, ma l’unica vera scommessa sul nostro futuro (e su quello dell’Europa se ancora ne ha uno), sempre più compromesso da una crescita delle diseguaglianze economiche e sociali ormai divenuta insostenibile.
I numeri parlano chiaro.
Il rapporto Istat 2014 documenta i livelli di povertà e diseguaglianze nel nostro paese: sono 4,5 milioni i cittadini in povertà assoluta, triplicati negli ultimi sette anni di crisi, e 9 milioni quelli in povertà relativa, più che raddoppiati rispetto al 2008; i minori in povertà assoluta sono più di un milione, mentre l’11,6% della popolazione è in condizione di grave deprivazione materiale.
Solo 13 bambini su 100 (circa 193mila in tutto) hanno il privilegio di accedere a un asilo pubblico, servizio offerto dal 52,7% dei Comuni italiani (ultimi dati ISTAT disponibili relativi al 2012). Ciò accade nonostante gli investimenti pubblici in questo ambito siano quasi raddoppiati nel 2012 (+49%) rispetto al 2002, superando 1,5 miliardi di euro.
Il complesso della spesa per interventi e servizi sociali dei Comuni italiani ha registrato nel 2012 il secondo calo consecutivo rispetto all’anno precedente attestandosi a poco meno di 7 miliardi di euro (6.982.391.861 euro). In crescita è risultata invece la compartecipazione degli utenti al costo delle prestazioni (quasi 1 miliardo euro).
Uno sguardo ai Fondi Sociali Nazionali rivela un significativo ridimensionamento negli anni della crisi. Due esempi per tutti. Il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali dagli 1,4 miliardi del 2008 a 312,6 nel 2016. Il Fondo per la Non Autosufficienza, dopo essere stato azzerato nel 2011, ha raggiunto i 400 milioni solo nel 2015 e nel 2016, con uno stanziamento ancora gravemente insufficiente rispetto alla domanda esistente.
Il nostro paese è buon ultimo in Europa per investimenti pubblici nell’istruzione (7,9% della spesa pubblica contro una media europea del 10,2%) e penultimo per quelli nella cultura (1,4% contro una media europea del 2,1%). Ciò mentre la Legge di Stabilità 2016 ha finanziato il Servizio Sanitario Nazionale con 111 milioni di euro, 4 in meno rispetto ai 115,4 previsti nel Patto per la Salute nel luglio 2014.
Se è lo stesso Presidente della Corte dei Conti ad aver evidenziato di recente che «Dai tagli operati è derivato un progressivo offuscamento delle caratteristiche dei servizi che il cittadino può e deve aspettarsi dall’intervento pubblico cui è chiamato a contribuire», qualcosa nelle politiche di spending review lineari non va. Anche perché tra il 2007 e il 2015 il debito pubblico italiano è passato dal 103,5% al 132,8% del PIL, nonostante le politiche di spending review abbiano costituito una delle priorità assunte dai Governi italiani succedutosi dal novembre 2011 in poi.
Le richieste che Im(patto) sociale rivolge ai Parlamentari e al Governo tentano di confrontarsi con questo contesto suggerendo l’abbandono delle politiche di austerità a vantaggio di interventi a sostegno dei consumi, dell’occupazione, del reddito, dell’istruzione, della cultura e del welfare. Un semplice atto di giustizia economica e sociale, in linea con l’art.3 della nostra Costituzione.