Come ha inciso la crisi economica sui progetti migratori di chi è giunto in Italia e come questo ricadrà sull’intera società? E su quali forme di rappresentanza possono contare quelle famiglie e quei lavoratori che non hanno la cittadinanza italiana? Il volume “Immigrazione e sindacato” (Ediesse Edizioni) prova a fare il punto
Il fenomeno delle migrazioni moderne è una questione che riguarda l’intero pianeta con implicazioni e dinamiche molto complesse. Le Nazioni Unite stimano che circa 220 milioni di persone (il 3% dell’intera popolazione mondiale) siano migranti internazionali. Tra questi solo il 38% emigra da un paese in via di sviluppo verso paesi più sviluppati, mentre il 33% si sposta tra paesi poco sviluppati e il restante 29% si muove dai paesi più ricchi. La mobilità internazionale, dunque, interessa con maggiore o minore intensità tutte le nazioni del mondo e dipende da diverse variabili definite come “fattori di spinta” e “fattori di attrazione” (i cosiddetti push factor e pull factor). Indubbiamente, il lavoro è una variabile determinante sia come fattore di uscita dal proprio paese che di attrazione rispetto al paese di accoglienza. L’Italia, in questo contesto, si caratterizza sempre di più come paese d’immigrazione, d’emigrazione e di transito allo stesso tempo, un fatto oggettivo che impone la necessità di governare le migrazioni con politiche e norme globali superando senza esitazioni l’approccio difensivo e securitario.
Fino ad oggi il fenomeno migratorio in Italia è stato vissuto e spesso studiato come un processo sostanzialmente lineare. La domanda di lavoro delle aziende e delle famiglie ha intercettato l’offerta di lavoro di persone provenienti da altri paesi. Le caratteristiche di quel lavoro, dequalificato e poco pagato, hanno incontrato la necessità di chi non poteva permettersi nessuna altra possibilità di scelta. E così nel corso degli anni si è strutturata sempre più la componente migrante nel mondo del lavoro e più in generale nella società. Oggi che quasi l’8% della popolazione residente e più del 10% della forza lavoro è di origine straniera, questo processo non si arresta ma va affrontato con paradigmi diversi. Queste sembrano essere alcune delle questioni sulle quali è necessario riflettere: come ha inciso la crisi economica sui progetti migratori di chi è giunto in Italia e come questo ricadrà sull’intera società? Cosa ha prodotto e cosa produrrà questo sistema duale dei diritti nella società e nel mercato del lavoro? Su quali forme di rappresentanza possono contare quelle famiglie e quei lavoratori che non hanno la cittadinanza italiana?
Le risposte a queste domande sono complesse e certamente serviranno ulteriori studi e approfondimenti per avere le idee più chiare, quello che però appare certo è che siamo arrivati ad un punto di svolta. Il volume “Immigrazione e sindacato” prova a dare il suo contributo a questa discussione attraverso una serie di saggi che si concentrano su tre concetti chiave: lavoro, cittadinanza e rappresentanza; declinandoli sia a livello nazionale che europeo.
I dati presentati nel volume evidenziano da un lato la sofferenza occupazionale dei lavoratori migranti e dall’altro il loro stato di perenne dequalificazione. Un aspetto non trascurabile è che l’anzianità lavorativa o di residenza non sembrano attenuare queste dinamiche: essere immigrato è di per sé un elemento di freno alla mobilità sociale. E ciò non vale solo sul mercato del lavoro, ma nell’accesso più generale alla parità dei diritti. Lavoro e diritti, sono ancora una volta le due facce della stessa medaglia. Non è possibile avere un accesso dignitoso al primo se non viene garantita una piena maturazione e portabilità dei diritti di cittadinanza. Inoltre, abbiamo visto come in questa fase di crisi siano le componenti più vulnerabili a pagare di più in termini occupazionali, di reddito e di accesso ai diritti. Il quadro che emerge, descrive ancora una volta un lavoro immigrato dequalificato, in cui non c’è quasi mai progressione di carriera e fortemente segmentato in alcuni settori produttivi e dei servizi. La crisi ha colpito l’occupazione (soprattutto quella maschile), le retribuzioni e le condizioni di lavoro. Aumentano gli orari ma diminuiscono le giornate lavorative, aumenta il lavoro nero e le forme di falso part time e falso lavoro autonomo.
Ma soprattutto, aumentano le paure e quella più grande è di perdere o non trovare più lavoro. Questo timore coinvolge la quasi totalità degli immigrati, perché il lavoro, oltre a garantire un reddito e una vita dignitosa è la condizione senza la quale non è possibile soggiornare regolarmente nel nostro paese. Per questo motivo aumenta il peso della ricattabilità e le condizioni di lavoro, già molto problematiche, diventano ancora più vessatorie. Anche chi vive in Italia da molti anni (e sono la grande maggioranza degli immigrati), non sembra che sia riuscito a superare le dinamiche discriminatorie di un mercato del lavoro duale e, purtroppo, anche per le seconde generazioni il percorso di piena acquisizione dei diritti di cittadinanza appare molto difficoltoso.
Gli immigrati oggi rappresentano circa il 12% del PIL, contribuiscono a sostenere il welfare, sorreggono una parte significativa del sistema previdenziale e offrono un decisivo contributo demografico. Esiste il rischio di un depauperamento di risorse professionali, nonché la progressiva destrutturazione di settori determinati del nostro sistema produttivo e sociale. Esiste il rischio di strutturare una società con cittadini di serie A e non cittadini di serie B, creando un vulnus pericoloso per la stessa tenuta del nostro sistema democratico. Aumenta il bacino della povertà, che associato all’immobilismo dell’ascensore sociale rischia di creare nel futuro forti tensioni di carattere sociale come quelle che hanno già attraversato le periferie francesi e inglesi negli scorsi anni.
Per questo motivo c’è bisogno di politiche che allarghino l’accesso ai diritti di cittadinanza (partendo proprio da una nuova normativa sulla cittadinanza che superi il concetto dello ius sanguinis) e azioni inclusive che possano permettere una integrazione attiva dei migranti nei paesi d’accoglienza. Le organizzazioni sindacali in Italia, così come in Europa sono impegnate proprio su questo. Il programma di Stoccolma, a suo tempo concordato dagli stati membri, era prevalentemente basato su un’idea di immigrazione circolare e selettiva, con un’attenzione eccessiva ai problemi di sicurezza alle frontiere, alle quote di ingresso e alle pratiche di respingimento coatto. I tempi per fortuna stanno cambiando, e la Commissione Europea, nel lungo cammino di discussione e consultazione che condurrà all’adozione del nuovo programma quinquennale nel 2014, spinge oggi per un approccio meno nazionale e più coordinato a livello comunitario, con una maggiore focalizzazione sui temi del contributo dei migranti all’economia e al mercato del lavoro, così come sulla necessità di una loro integrazione nella società, anche quale strumento per la riduzione dei fattori di rischio connessi alla loro presenza in Europa. Non si tratta ancora di una piena valorizzazione del valore e delle prerogative dei migranti e di un completo riconoscimento del diritto universale alla libertà di movimento, al di là di motivazioni puramente utilitaristiche; tuttavia è un primo passo importante verso sviluppi politici positivi, nonché verso un’armonizzazione degli strumenti giuridici; e non è un caso che tale nuova impostazione sia frequentemente osteggiata da molti stati membri in seno al Consiglio Europeo. È proprio per questo che il sindacato europeo è fortemente impegnato in un fitto dialogo con la Commissione Europea e il Parlamento, nell’intento di sostenere e implementare questo approccio.
Immigrazione e sindacato, VII rapporto Ires, a cura di Francesca Carrera – Emanuele Galossi, Ediesse Edizioni