Una visita della campagna LasciateCIEntrare con i candidati alle elezioni al Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Ponte Galeria. Storie di diritti violati, leggi sbagliate, CIE da chiudere
Pagata a cottimo 30-40 euro al giorno per 16 ore di lavoro in una fabbrica di scarpe di Empoli. Nel 2009 ha provato ad accedere alla sanatoria, pagando 3000 euro uno dei tanti truffatori che sulle sanatorie “una tantum” fanno un sacco di soldi: da sempre. È una delle ragazze che abbiamo incontrato il 4 febbraio nel corso della visita al Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Ponte Galeria, organizzata dalla campagna LasciateCIEntrare. La ragazza è cinese, non parla italiano e a fare da ponte è un mediatore della cooperativa Auxilium che gestisce il centro dall’1 marzo 2012. La ragazza ci dice “non vogliamo essere irregolari” e chiede: “perché il governo italiano non dà la possibilità di ottenere documenti regolari a chi ha un lavoro senza metterci nelle mani dei truffatori?”, domanda alla quale, ovviamente, non possiamo rispondere. Non c’è nessuna “logica” in un sistema che da ormai 15 anni continua a ingrandirsi nonostante le violazioni dei diritti umani quotidiane, le denunce delle associazioni, dei movimenti e delle organizzazioni internazionali e nonostante la sua inefficacia ormai conclamata rispetto agli obiettivi ad esso attribuiti dal legislatore.
Tutte cose chiare anche a molti rappresentanti delle forze dell’ordine e del Ministero dell’Interno, ma, per così dire, “rimosse” dai Governi e dai Parlamenti che si sono succeduti nel corso del tempo. E’ per questo che la campagna LasciateCIEntrare ha scelto di portare nel CIE di Ponte Galeria, vicino a Roma, alcuni candidati alle prossime elezioni, giornalisti e attivisti antirazzisti, 29 persone, accompagnando la visita con l’appello “Mai più CIE!”, sperando di trovare ascolto nel prossimo Parlamento.
I CIE vanno chiusi perché sono disumani, perché sono inutili e perché con le risorse che servono per crearli e gestirli si potrebbero fare molte altre cose più utili per i circa 4,5 milioni e mezzo di cittadini stranieri che sono stabilmente presenti nel nostro paese. Ma per chiuderli bisogna ripensare completamente la disciplina che regola l’ingresso e il soggiorno nel nostro paese. Sembra averlo chiaro anche il personale che oggi ci ha accompagnati durante la visita.
La giovane C. e le altre tre ragazze che stanno nella sua stanza, ad esempio, per venire in Italia hanno dovuto pagare tra gli 8.000 e i 10.000 euro. Lei questo debito non ha ancora finito di pagarlo. Se avesse potuto venire liberamente in Italia per cercare lavoro, forse avrebbe potuto impiegare quei soldi per far studiare con maggiore tranquillità la figlia, ancora all’università in Cina, oppure darsi tempo per cercare un lavoro meno disumano di quello che ha svolto a Empoli. Il suo sfruttamento non ha potuto neanche denunciarlo perché comunicare con un legale all’interno dei CIE non è così facile. Il coordinatore degli operatori ci ha spiegato che nella convenzione stipulata dall’ente gestore con la Prefettura (41 euro pro capite pro die) non è compreso il servizio di mediazione con gli avvocati che provengono dall’esterno. Come faccia un legale a ricostruire la storia di una ragazza cinese che non parla italiano senza potersi avvalere di un mediatore è tutto da capire. Non abbiamo modo per altro di verificare le affermazioni dell’operatore: non solo la convenzione, ma persino il bando di gara in base ai quali Auxilium ha “vinto” la gestione del CIE sottraendola alla Croce Rossa Italiana, non sono pubblici. Vedremo se, come promesso dalla dirigente della Prefettura che ci ha accompagnati, riusciremo a ottenerne copia nei prossimi giorni.
Parlare di soldi in una visita come questa ha qualcosa di tremendo. Quello di Ponte Galeria è un CIE molto grande, può “ospitare” fino a 360 persone (anche se mediamente le persone presenti all’interno del centro sono molte meno, oggi 105 uomini e 50 donne): tutta la struttura è recintata con sbarre alte cinque metri e i panni stesi su un filo appeso tra una staccionata e l’altra non fanno che enfatizzarne la natura detentiva.
Ma parlare di soldi è necessario soprattutto oggi che la politica della spending review ci ricorda in ogni momento che la priorità è una sola: tagliare la spesa pubblica per abbassare il debito. Si è tagliato infatti da tutte le parti: su scuola, ricerca, sanità, servizi sociali e per i non autosufficienti, ma non si è tagliato sui CIE. Gli ultimi bandi sono stati fatti al ribasso, ma lo stanziamento complessivo previsto nel bilancio dello Stato per il 2013 non sembra essersi abbassato: 194,7 milioni di euro allocati sul capitolo di bilancio 2351 (2) e altri 41,5 milioni di euro allocati sul capitolo 7351 (2). Pochi soldi se paragonati alle dimensioni dell’ultima finanziaria, molti se paragonati a quelli investiti dallo Stato italiano nelle politiche di inclusione sociale. Sicuramente soldi “interessanti” per quegli enti che grazie alla gestione dei CIE hanno fatto lievitare i loro bilanci. Soldi che però sulle vite delle persone che nel CIE hanno la sfortuna di stare – potenzialmente fino a 18 mesi, in media 4-5 mesi secondo i funzionari della questura di Roma – provocano solo sofferenza. E c’è chi non riesce a sopportarla come le due persone che a Ponte Galeria si sono suicidate l’anno scorso.
Risulta difficile spiegare alle donne e agli uomini chiusi a Ponte Galeria che lo Stato per motivi “burocratici” non riesce ad identificare in carcere i migranti irregolari che vi sono detenuti e che quella vera e propria doppia pena detentiva che è il trattenimento in un CIE è necessaria. Il problema è l’identificazione che non può avvenire senza la collaborazione delle ambasciate, dicono i rappresentanti della Questura. Ma anche il mancato coordinamento tra le amministrazioni del Ministero dell’interno e del Ministero della Giustizia, diciamo noi.
Così come risulta impossibile obiettare a chi ci dice che i pasti sono immangiabili: il direttore del centro ci dice infatti che dei 41 euro pro capite previsti da convenzione, circa 32 vengono spesi per il personale, 3,5 per un “pocket money” che le persone possono spendere per comprare schede telefoniche o merendine: per i pasti veri restano appena 5 euro.
Che serva molto personale per gestire una struttura come questa è indubbio. Secondo il direttore del centro i lavoratori impiegati sono in tutto 75, per ogni turno diurno sono presenti circa 20 persone tra operatori dell’ufficio legale, dell’amministrazione, del magazzino, del servizio di distribuzione mensa, medici, infermieri e mediatori, il doppio di quelle previste nel progetto che ha vinto la gara di appalto. Gara al ribasso vuol dire anche questo: sottodimensionamento del personale, salari bassi, ritardi nei pagamenti degli stipendi e spiccioli per pagare il resto delle spese tra le quali i pasti non dovrebbero essere considerati esattamente un lusso. Oppure l’acqua calda che, come hanno gridato alcuni uomini detenuti nel centro incontrati solo a distanza, a dividerci le sbarre, manca.
Il paradosso è che dopo 4, 5, anche 8 mesi di detenzione se la persona non viene identificata viene “rilasciata” con l’ordine di lasciare il territorio dello stato entro 7 giorni. Molti non lo fanno e dopo qualche mese vengono fermati e tornano in un CIE. Può accadere una, due, anche otto volte come ci ha detto la responsabile dell’ufficio immigrazione del CIE. E ogni volta “l’iter” ricomincia da capo. Una spirale perversa: che deve finire.