Pubblichiamo uno stralcio di una lunga intervista ad Aldo Natoli, che appare in appendice del volume “Aldo Natoli. Un comunista senza partito”, pubblicato dalle Edizioni dell’Asino a cura di Ella Baffoni e Peter Kammerer.
Il viaggio in Vietnam e Cina
Questo portasigarette? Me lo ha regalato Ho Chi Minh quando, per conto del Partito, andai nel Vietnam la prima volta ed è una cosa a cui tengo moltissimo. Fu una esperienza molto interessante. Allora abbiamo avuto alcuni colloqui con il segretario del partito vietnamita che era Lê Duãn e con altri. Un altro molto in gamba con cui abbiamo avuto dei colloqui fu Phan Vãn Dông, che era stato primo ministro. Quei dirigenti ebbero la grande capacità di avere verso i cinesi una posizione amichevole, ma mai di sudditanza. Discutevano con i cinesi in piena indipendenza. I cinesi li hanno aiutati moltissimo e anche i russi gli hanno dato molte armi, ma senza l’aiuto logistico dei cinesi non avrebbero potuto vincere la guerra.
Il controllo del Vietnam, in quel momento, significava il predominio degli Stati Uniti sull’Asia, cosa che avrebbe coinvolto immediatamente la Cina. I vietnamiti sono stati invece l’avanguardia che ha fermato gli Stati Uniti. La resistenza del Vietnam ha avuto una influenza politica indiretta anche sull’India.
In Vietnam, negli incontri formali, era difficile valutare lo spessore umano oltre che politico delle persone, a meno di non trovarsi di fronte a un personaggio come Ho Chi Minh. Ma alcuni dirigenti li ricordo come dei veri personaggi anche umanamente, per esempio Phan Vãn Dông. Quando penso a quanto hanno sofferto i vietnamiti durante la guerra, mi viene subito l’immagine di Phan Vãn Dông che in un certo senso la impersonava. Ma questo avviene raramente. Lo stesso non lo posso dire di Deng, perché con Deng ho avuto rapporti esclusivamente politici e su uno schema politico logoro, in fondo un dialogo già prestabilito.
I vietnamiti sono stati aggrediti dagli americani, che cosa potevano fare? Gli americani hanno invaso il Vietnam del sud. Secondo me non c’era un’altra via allora. C’è stata un’opportunità solo quando gli americani si sono resi conto che non potevano vincere, o che perlomeno il prezzo per vincere sarebbe stato talmente alto che era meglio smetterla. Infatti Nixon ha dimostrato di essere un grande politico. Lui che sembrava così rozzo si è convinto che la cosa più saggia che l’America poteva fare era andarsene da lì e ha avuto il coraggio di farla. Lo stimo molto per questo. Ma questo è avvenuto dopo quanti anni di guerra? Quando stavo ad Hanoi, una notte abbiamo chiesto di andare al fronte perché Pajetta aveva portato la bandiera di un reparto partigiano italiano e voleva consegnarla ad un reparto combattente vietnamita. Era una cosa comprensibile, non apprezzo queste cose però era una cosa che valeva la pena di fare. E allora partimmo la sera da Hanoi su una jeep scortata da due jeep dell’esercito vietnamita e da una jeep che era costantemente in contatto con le stazioni di controllo antiaereo che, in ogni momento, segnalavano da che parte andavano gli aerei che continuamente bombardavano, soprattutto di notte, ma anche di giorno. Noi andavamo verso il fronte e di tanto in tanto questa jeep ci avvertiva che dovevamo lasciare la strada e nasconderci nella jungla. Però nelle vicinanze immediate dove eravamo noi non c’è stato nessun bombardamento. I bombardamenti si sentivano e si vedeva tutto l’orizzonte che lampeggiava, però noi non siamo mai stati sotto le bombe. Abbiamo viaggiato durante la notte, siamo andati in una zona del fronte e lì abbiamo incontrato un reparto a cui abbiamo consegnato questa bandiera. Fu una cosa molto bella e poi siamo tornati indietro facendo molta strada perché ricordo che, quando arrivammo ad Hanoi, era l’alba. Per Vie Nuove scrissi una serie di corrispondenze in cui cito questo episodio.
Pajetta, è vero, fece la proposta di mandare dei volontari italiani. E un alto dirigente ci disse: “Ma voi ci volete far perdere la guerra”. Subito dopo si spiegò: “Ma voi capite, se ci mandate dei volontari noi dobbiamo pensare a come farli mangiare, a come difenderli dalle zanzare, a come farli dormire eccetera, tutti problemi ai quali per noi è molto più difficile dare una risposta che rispondere con le armi agli americani”. Quindi quella fu la risposta che ci diedero, molto amichevolmente: “Questa guerra possiamo farla solo noi”.
Se avessero detto di sì, Pajetta un gruppo di volontari l’avrebbe mandato, perché aveva un forte gusto dell’avventura. Naturalmente sarebbe stato un gruppo piccolo, ma penso che se avessero detto si a un reparto italiano, perché propagandisticamente serviva, l’avrebbe fatto. Quando gli hanno detto di no, non ha insistito perché era un uomo molto intelligente.
In Indonesia la distruzione del Partito comunista fu terribile, li hanno ammazzati tutti. In Indonesia, nel 1965, avemmo con Dipa Nusantara Aidit, presidente del PKI, un incontro che mi lasciò molto perplesso perché lui ostentava una sicurezza ed un ottimismo assolutamente eccessivi che, come si dimostrò poche settimane dopo, risultò completamente infondato, visto che li hanno ammazzati tutti dopo una resistenza minima.
Non avevamo nessun appuntamento con i cinesi ma, dato che la nostra delegazione doveva prendere l’aereo a Hong Kong, telefonammo per sapere se il Partito comunista cinese, dovendo noi passare dalla Cina, era disposto ad avere un incontro con il Partito comunista italiano e la risposta fu affermativa. Per cui noi, prima di andare a Hong Kong per tornare in Italia, ci siamo fermati in una città e lì incontrammo una delegazione.
Deng ci accolse dicendo: “Noi sappiamo che voi non siete servi di Krushev”. Ero rimasto molto insoddisfatto dal modo in cui Pajetta aveva presentato la nostra linea politica a Deng Xiaoping, per cui trovai l’occasione di parlare con Deng in un modo notevolmente diverso da come aveva fatto Pajetta. Deng fu molto riservato, anche con me, ascoltò le cose che gli dissi senza dire nulla, ma lo capisco. Era il Segretario in quel momento, d’altra parte tutti i rapporti di vertice che ho avuto erano con persone a lui molto vicine. Mao non l’ho visto mai, ho incontrato un paio di volte Chou En-lai, ma fuori dalla Cina. Dei dirigenti cinesi che ho conosciuto (Deng, Chu Te, Chan Shen) Chou En-lai era la persona più straordinaria. L’ho incontrato a Praga una prima volta perché stavamo nello stesso albergo e mangiavamo alla stessa tavola. Ero andato lì con una delegazione del Pci per il funerale di Klement Gottwald. Chou En-lai è la persona che mi ha impressionato di più fra i dirigenti cinesi.
Con la Cina ci sarà sicuramente uno scontro, è inevitabile perché penso che la Cina farà tali progressi nel campo industriale da diventare un gigante. Oggi non credo che la Cina sia in grado di misurarsi con gli Stati Uniti, non lo credo affatto. Però fra 10 anni, forse, la Cina sarebbe in grado di rispondere e di competere. Ma fra 10 anni non ci sarò più.
Ella Baffoni e Peter Kammerer
Aldo Natoli. Un comunista senza partito. edizioni dell’asino, 2019