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Il Pil e le attività illegali. Bisogna indignarsi?

La revisione comporterà un incremento del livello assoluto del Pil ma non modificherà (se non molto marginalmente) i tassi di crescita e non farà uscire l’Italia dalla stagnazione La scorsa settimana abbiamo assistito ad una profusione di titoli indignati sui giornali italiani in merito alla revisione della contabilità annuale annunciata dall’Istat (il cosiddetto Sec2010) ed […]

La revisione comporterà un incremento del livello assoluto del Pil ma non modificherà (se non molto marginalmente) i tassi di crescita e non farà uscire l’Italia dalla stagnazione

La scorsa settimana abbiamo assistito ad una profusione di titoli indignati sui giornali italiani in merito alla revisione della contabilità annuale annunciata dall’Istat (il cosiddetto Sec2010) ed in particolare alla decisione presa in sede Eurostat di includere nel calcolo del Pil anche alcune attività illegali, in particolare il traffico di droga, la prostituzione e il contrabbando di sigarette o alcolici.

Le reazioni principali sono state due:

Riguardo la prima questione, più tecnica, ho percepito molta confusione per cui è bene chiarire che la revisione comporterà un incremento del livello assoluto del Pil ma non modificherà (se non molto marginalmente) i tassi di crescita. Con questa operazione l’Italia non uscirà dalla stagnazione, la revisione sarà fatta anche rispetto al passato e quindi non si creerà un gradino nella serie di dati al settembre 2014. Tuttavia, le maggiori poste che interverranno a comporre il Pil, in particolare la revisione della contabilizzazione delle spese in ricerca e sviluppo, ne faranno crescere il valore totale migliorando i rapporti deficit/pil e debito/pil. Naturalmente maggiori margini rispetto ai parametri del fiscal compact potrebbero permettere un maggiore livello di spesa che possa stimolare la crescita. Ma non aspettiamoci certo alcuna soluzione dei problemi del Paese in questo campo.

La seconda questione è a mio avviso molto più interessante e rimanda al significato che attribuiamo al Pil al di là di ciò che esso misura. Tra la misura e la sua interpretazione la distanza può essere enorme.

Il Pil misura la quantità di beni e servizi prodotti dal sistema economico. Esso è stato nei decenni profondamente criticato, non tanto per il modo in cui misura la “produzione interna lorda” (un dibattito prettamente da contabili nazionali), ma per come venga utilizzato per valutare la performance economica di un paese o addirittura il suo livello sviluppo o il grado di benessere dei suoi cittadini.

Giovanardi, e con lui dozzine di editorialisti ipocriti, grida allo scandalo perché nel Pil ci sarà il traffico di droga, come se fino ad ora tutto ciò che lo compone fosse positivo: il gioco d’azzardo, le acciaierie che avvelenano Taranto, la speculazione finanziaria, la produzione di armi e munizioni e chi più ne ha più ne metta. Oltre a tutta l’economia sommersa, ma legale, che rappresenta circa il 17% del Pil: che il PIl includesse anche il salario del caporalato dei campi di pomodori pugliesi non è mai stato un problema per nessuno. Il problema di fondo chi muove la critica sul piano etico è quella di considerare il Pil una misura del grado di benessere della nostra società, distorcendo gravemente l’idea di sviluppo e progresso, legandola solo ad una visione economicista del mondo.

Dicevamo che il Pil deve misurare né più né meno la “produzione interna lorda”. La droga è un bene che viene venduto sul mercato: bella o brutta che sia, è un’attività economica a tutti gli effetti, e se vogliamo misurare la nostra attività economica dobbiamo tenerne conto. A fini statistici si presenta anche un problema di comparabilità. Le droghe leggere rientrano nel Pil olandese, la prostituzione in quello tedesco, mentre nel nostro rientra il commercio d’alcol che non rientra nel Pil di alcuni paesi islamici. Si potrebbe (ed è stato ampiamente fatto) richiamare la difficoltà di stimare questi fenomeni, ma questa è l’eterna sfida della statistica ufficiale. Si tratterà di stime come lo sono la grande maggioranza dei dati che commentiamo quotidianamente, Pil compreso.

Una volta misurata la “produzione interna lorda” ci dobbiamo porre il problema se sia utile a misurare la performance economica o il benessere dei cittadini. La risposta è no in entrambi i casi.

Per misurare la performance economica di un paese bisognerebbe usare un indicatore, diverso dal Pil, capace di dirci anche di come il reddito viene distribuito, di quanto le persone possano beneficiare di beni e servizi che non hanno un mercato (come il volontariato o il lavoro domestico), di quanti servizi ricevano gratuitamente dallo stato, di quanto la condizione raggiunta dipenda da indebitamento pubblico o privato. Esistono misure di contabilità nazionale che rappresentano questi elementi molto meglio del Pil, come il reddito disponibile aggiustato netto. Inoltre c’è l’enorme questione della valutazione dei danni ambientali prodotti dal sistema economico i quali al momento vanno addirittura ad accrescere il pil sotto forma di spese difensive (depuratori o marmitte catalitiche). Questi problemi erano già chiari a Simon Kuznetz che nel 1934 formalizzò il sistema di contabilità nazionale americano, e quindi il Pil: “il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto dal suo reddito nazionale”.

Invece il Pil è stato usato proprio per quello, e non solo. I livelli di sviluppo dei paesi sono tradizionalmente associati al reddito pro capite, ma questa è una operazione così distorta che già dal 1990 le Nazioni Unite misurano lo sviluppo umano come media di Pil, speranza di vita e livelli di istruzione. Il dibattito internazionale si è poi recentemente spostato sulla misurazione del benessere, un concetto così complesso che nessuno intende misurarlo con un unico numero (a meno di non usare la “soddisfazione per la vita nel complesso”, come molti sostengono). Esperienze come il BES proposto da Istat e CNEL raccolgono numerosi indicatori in modo da rendere giustizia a tutte quelle componenti essenziali per valutare il benessere dei cittadini o il progresso delle società: salute, relazioni sociali, soddisfazione per il lavoro, tempo libero, istruzione etc., ovvero, per dirla con Bob Kennedy “tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

Il problema principale dell’introduzione delle attività illegali nel Pil, in realtà, sta nel rischio che la politica, avendo come obiettivo la massimizzazione della produzione, possa favorire il fiorire di tali attività. Il rischio è reale, per massimizzare il Pil siamo stati disposti a distruggere interi ecosistemi. La risposta però non sta nel non misurare l’economia criminale, ma nel cambiare gli indicatori che utilizziamo per guidare lo sviluppo delle nostre società.

 

 

Questo articolo presenta esclusivamente opinioni dell’autore che non potranno in alcun modo essere attribuibili all’istituto di appartenenza.