A Venaria il vertice del G7 su clima, energia e ambiente sarà l’occasione per la presidenza italiana di promuovere il Piano Mattei. Un piano neocoloniale, che non contrasta l’emergenza climatica ma asseconda gli interessi dell’Eni, protestano le associazioni ambientaliste.
È ormai alle porte la riunione ministeriale del G7 su clima, energia e ambiente che si svolgerà a Venaria Reale (TO) dal 27 al 30 aprile, sotto la supervisione del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Picchetto Fratin, il quale ha affermato che “a Venaria l’Italia arriva con idee chiare e con la determinazione necessaria per rendere questo G7 portatore di risultati reali e ambiziosi”. Il programma della riunione si articolerà su cinque aree tematiche: azione climatica, economia circolare, energie rinnovabili, acqua, e un’ ultimo, trasversale, focus sui giovani. Una particolare attenzione verrà dedicata alla “collaborazione” con i Paesi terzi in ambito energetico, climatico e di sviluppo, e quindi, immancabilmente, al Piano Mattei, fiore all’occhiello del governo Meloni e protagonista della sua attività nel primo trimestre del 2024. Proprio alla luce di questa sua centralità sull’orizzonte politico nazionale e internazionale, è il caso di analizzarlo nella sua complessità, evidenziandone contraddizioni e retroscena, a partire dall’indole anacronistica, neo-coloniale, ed estrattiva.
Il modello di governance e la centralità del gas
Il 29 gennaio scorso, in occasione del fantomatico vertice Italia-Africa, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha descritto il Piano Mattei come frutto di una cooperazione paritaria, non predatoria e non caritatevole, con l’obbiettivo di garantire il fabbisogno energetico europeo contribuendo simultaneamente allo sviluppo dei Paesi africani. Eppure, questo “nuovo” approccio tutto sembra essere tranne che innovativo, cooperativo e pragmatico, a partire dal modello di governance intrapreso dalla presidenza italiana del G7. La composizione della cabina di regia del Piano, infatti, ne lascia bene intendere la matrice predatoria e neocoloniale, a partire dalla completa esclusione dei rappresentanti africani dai processi decisionali e i blindatissimi tavoli di lavoro. Fattore, quest’ultimo, sottolineato anche da Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione Africana (UA), che ha apertamente ripreso Meloni in occasione del vertice di gennaio. “Abbiamo scelto cinque grandi priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia”, dichiara la presidente, ma è chiaro che quel ‘noi’ non vede – e non vedrà – la partecipazione della controparte africana, assumendo, ancora una volta, un approccio calato dall’alto che ignora i bisogni e le voci del popolo africano.
Trovano spazio invece – e un ampio raggio d’azione – le istituzioni della finanza pubblica, prima di tutte la SACE, l’agenzia di credito all’esportazione, grazie alla quale l’Italia è il primo finanziatore europeo di progetti fossili all’estero, il 42% dei quali, guardacaso, realizzati in Africa. Ma la SACE non è sola, perché al suo fianco siede ENI, impresa a partecipazione pubblica e seconda multinazionale energetica per la produzione di petrolio e gas in Africa. Più della metà dei profitti del cane a sei zampe sono infatti generati, sempre casualmente, negli stessi Paesi-pilota del Piano Mattei – Mozambico, Egitto, Kenya, Congo, Nigeria, etc… -, dove si trovano i principali giacimenti petroliferi del continente e innumerevoli nuovi progetti di idrocarburi e biocarburanti, protagonisti, assieme alle tecniche di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CSS), della strategia di “decarbonizzazione” di ENI. Una strategia virgolettata che si basa sulle monoculture energetiche, la cui produzione è strettamente collegata alla perdita di biodiversità, alla degradazione del suolo e all’utilizzo di prodotti fitosanitari, e su tecnologie inefficienti quali gli impianti di CSS, che assorbono appena lo 0.1% delle emissioni a livello globale. Ecco allora spiegata la centralità di gas e biocarburanti nel Piano Mattei, che sposa un approccio complementare e simmetrico agli investimenti e le strategie di ENI e SACE.
D’altronde come poteva essere diversamente quando i due protagonisti dell’industria del fossile fanno parte della cabina di regia e il Piano stesso prende il nome da Enrico Mattei, fondatore di ENI? “Mattei amava dire che “l’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono”. Dove altri vedevano difficoltà, Mattei vedeva un’opportunità” – queste le parole di Giorgia Meloni nell’intervento di apertura del vertice Italia-Africa. Parole che stridono con le stesse premesse di una collaborazione non predatoria e non caritatevole, e che tentano, invano, di mascherare quella che è da secoli ormai, un’ambizione – miope – di rendere l’Africa il principale fornitore energetico dell’Europa, esternalizzando i costi ambientali e sociali dell’industria fossile e riproducendo un sistema energetico neocoloniale.
La matrice securitaria del Piano e la grande assenza del clima
“Italia-Africa, un ponte per crescere insieme” era il titolo del vertice di gennaio, ma su questo ponte a due corsie, da un lato viaggia l’energia estratta dalle fonti fossili africane in viaggio per l’Europa, e sull’altro, nel verso opposto, un numero sempre più grande di migranti rimpatriati. Mentre nel mare sottostante, una crescente distesa di corpi rimane inerte a guardare l’ennesima ingiustizia commessa nei confronti del continente africano. Perché, se da un lato il Piano Mattei punta a “liberare le energie africane”, dall’altro è chiaro l’obiettivo di contenimento dei flussi migratori provenienti dal continente. Evidente è infatti la matrice securitaria del Piano, che si fa portavoce dell’ideologia sovranista, xenofoba e anti-immigrazione racchiusa nel noto slogan “Aiutiamoli a casa loro”. O nei tre centri per migranti (2 hotspot e un Centro di Permanenza per il Rimpatrio) che il governo italiano, con l’approvazione dell’Unione Europea, sta facendo costruire in Albania.
Oltre a mettere in luce la matrice securitaria del Piano Mattei, la centralità dei flussi migratori rende ancora più esplicita un’altra grande assenza ai tavoli di lavoro, ovvero quella del nesso tra crisi climatica e migrazione. Anche perché di clima nel Piano Mattei si parla ben poco, nonostante sia previsto che oltre metà del budget complessivo – che ammonta a 5.5 miliardi – vengano attinti proprio dal Fondo Italiano per il Clima. Lo sanciscono senza timori Greenpeace, Kyoto Club, Legambiente e WWF Italia in una nota inviata al governo, dichiarando che “il Piano rischia seriamente di compromettere gli impegni esistenti per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e quelli presi nelle due ultime COP sul clima”, e che “questa continua corsa ai fossili in Africa da parte dell’Italia e di altre nazioni europee non fa che perpetuare l’emergenza climatica, così come la crisi alimentare e quella legata alla sicurezza, crisi che costringono le persone a migrare dall’Africa verso l’Europa”. Le associazioni ambientaliste, assieme alla società civile africana, sottolineano infatti la necessità di un piano politico integrato che contrasti la crisi climatica e faciliti una transizione giusta ed ecologica per l’Italia e per l’Africa. Una transizione che necessita in primo luogo di un allontanamento drastico ed immediato dalle fonti fossili, e quindi dal gas e il petrolio, ma anche da quelle presunte soluzioni, quali i biocombustibili, gli idrocarburi e gli impianti di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica, che più che invertire la rotta climatica, hanno il potenziale di arricchire ulteriormente i colossi dell’industria fossile. Perché se vi è una certezza, è che dalla fitta e complessa rete di controversie, conflitti d’interesse, e doppiogiochismi intrisi di neocolonialismo e xenofobia, il Piano Mattei ne esce trotterellando spavaldo su sei zampe, mentre il Pianeta va a rotoli e il governo applaude compiaciuto.