Che cosa impedisce alla sinistra di «fare popolo» proponendo una vita collettiva più felice? Un estratto dal libro di Walter Tocci, appena uscito per Donzelli editore
Fino a quando sopporteremo una sinistra senza popolo? Da qui bisogna ripartire con un salto teorico e pratico per intendersi meglio sul concetto di «popolo». La prima battaglia che deve vincere il concetto è con se stesso, deve liberarsi cioè della tradizione idealistica che lo intende come un insieme organico e senza differenze. Il popolo non esiste in natura. Non è un aggregato sociale e tanto meno una classe. È prima di tutto una costruzione politica (1)…
Ecco il compito teorico, ripensare il popolo accordando la musica di un doppio movimento.. Da un lato bisogna affacciarsi sull’abisso, cogliere il perturbante della forma di vita, immergersi nell’estrema differenziazione. Dall’altro lato però non si deve rinunciare al costruttivismo politico tracciando un confine nel magma sociale per definire il campo: con chi e contro chi, per cosa e anti che cosa.
Prender parte in una lotta, ma con il pensiero rivolto al tutto è la funzione originaria di un partito. Essa non solo non scompare, ma viene esaltata nella lotta per l’immaginario che caratterizza la postmodernità. Scompaiono invece i modelli, le strutture e le forme che hanno contraddistinto il partito novecentesco. La destra lo ha usato prevalentemente come strumento di contenimento, senza mai innamorarsene, ed è perciò più pronta a liberarsene, ma sa anche riscoprirne la tensione originaria tra parte e tutto mediante le attuali forme populistiche. Al contrario, la sinistra sente la nostalgia verso questo strumento perché è stato decisivo nella sua lotta per l’eguaglianza e per l’ampliamento della democrazia, ma non ha saputo ritrovare una soggettività politica capace di interpretare sia la parte sia il tutto.
Ce ne sarebbe l’occasione proprio nella crisi attuale che rimette in discussione le certezze del passato. La fine del ciclo liberista crea nuove linee di frattura sul destino dell’Occidente, sulle promesse del capitalismo, sulle forme della Decisione. Sui nuovi cleavages del secolo appena cominciato la sinistra potrebbe «fare popolo» meglio dei comici postmoderni, mettendoci più solidarietà e più cultura. Potrebbe farlo riscoprendo l’attualità delle proprie ragioni dell’eguaglianza, del lavoro, della democrazia. Non basta tornare a declamarle, come si è preso a fare negli ultimi tempi, occorre renderle vincenti.
L’Inganno (liberista) non cadrà solo perché la crisi lo ha svelato. Occorre un altro discorso che risolva l’irrequietezza gramsciana, che eviti tutte le attuali ipocrisie: chi vuole continuare come prima, chi si limita ai pannicelli caldi e chi sposta l’attenzione sulle cause fittizie. È maturo il tempo per elaborare un’altra teoria che vada d’accordo con la vita reale delle persone. La chiama un «programma massimo della sinistra» Salvatore Biasco, non senza timore di essere frainteso, per dire che a un’egemonia durata trent’anni si risponde solo con un’altra egemonia, non con i mugugni, i distinguo e le chiose (2).
Non dovrà essere una fuga nell’impossibile, ma una guida per procedere alla rovescia del mondo attuale, per progettare idee nuove nel lavoro, nella cultura, nella salute, nella natura, nella città e nei tempi, per fare le riforme che davvero cambiano la vita dei cittadini, per aiutare i riformatori che già sono all’opera, per prendere decisioni generative di nuovi legami sociali.
E il tono dovrebbe diventare più positivo che in passato. Mentre il discorso capitalistico si fa sempre più cupo tra crisi, debiti e disoccupazione, la novità sarebbe una sinistra che riprendesse a parlare di felicità. Ci provò Prodi nell’ultima battuta del confronto televisivo del 2006, per contrastare le promesse di meno tasse per tutti, ma rimase un colpaccio mediatico non pienamente riuscito. Con più teoria Magri si spinse a preconizzare una «società signorile di massa», ma rimase una mozione congressuale inesistente. Eppure coglieva un punto essenziale: «l’arricchimento dei bisogni propriamente umani, della personalità, delle relazioni, da sempre connotato del privilegio signorile, potrebbe per la prima volta nella storia rappresentare l’obiettivo dell’intera società». Dovrebbe essere possibile in astratto se la ricchezza prodotta dalla formidabile capacità di conoscenza dell’homo faber del XXI secolo fosse coniugata con l’eguaglianza e con la libertà. Non ci sarebbe ragione per l’impoverimento dei lavoratori, per il furto di futuro ai giovani, per la mancanza di solidarietà verso chi soffre, per il respingimento dei migranti nelle acque del Mediterraneo. Basta questa critica ingenua all’attuale capitalismo per richiamare la sua insostenibilità e la rottura di un rapporto durato tanto tempo tra sviluppo e benessere. Le esperienze della vita e le analisi sociali più attente segnalano che nelle società mature il miglioramento economico si accompagna spesso a un malessere nelle relazioni tra le persone. Solo un «manifesto per la felicità» può spiegare il ribaltamento di politiche che è necessario per uscire davvero dalla crisi (3).
Che cosa impedisce alla sinistra di «fare popolo» proponendo una vita collettiva più felice? Che cosa impedisce di inventare un «populismo» sereno, creativo, solidale a sostegno delle riforme che migliorano la vita dei cittadini? C’è un impedimento che attiene al lungo processo di statalizzazione della politica. Da quella posizione non riesce a parlare ai tormenti e ai bisogni della vita. Ma qui c’è un’altra differenza tra la destra e la sinistra, soprattutto in Italia. La prima ha saputo mantenersi in una posizione anfibia tra l’occupazione di potere nell’amministrazione e l’agitazione vitalistica della polemica antistatale. La seconda, invece, ha interpretato fedelmente il processo fino a insediarsi senza residui nello Stato. Il Pd, almeno nei quadri intermedi e dirigenti, è un esempio da manuale del modello del party in office descritto dalla politologia: un partito di amministratori, gestore delle compatibilità economiche, adagiato nelle pieghe della spesa pubblica, incapace di parlare ai tormenti della società e tanto meno di parlare di felicità.
(il testo, gentilmente concesso dall’editore, è un estratto del libro “Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra”, Donzelli editore, pp. 133‚ 18,50 euro)