La riforma dell’articolo 18 oggi, quella degli ammortizzatori sociali al 2017. Nell’intervento del governo si ripropone la vecchia politica dei due tempi. Il primo va in scena subito, il secondo arriverà a dramma compiuto. Senza ribaltare la trama: troppo poco, e male, si fa per il nuovo welfare per i precari
L’articolo 18 non è tutto. Nella riforma del mercato del lavoro ballano temi di interesse più strategico della sola disciplina dei licenziamenti individuali. Come ridurre la cosiddetta flessibilità in entrata – l’abuso del lavoro non contrattualizzato e non retribuito, le finte partite Iva, i contratti formativi senza formazione, la giungla dei lavori a termine. E come assicurare strumenti di sostegno, efficaci e finalmente universalistici, a chi il lavoro non lo trova o l’ha perduto. Problemi su cui sindacati e politica dovevano intervenire già da tempo, quando si potevano impegnare più risorse per una estensione degli ammortizzatori sociali e per le politiche attive del lavoro. Quando a pretenderlo non erano le emergenze e neppure i fantasmi di oggi – l’Europa, la Bce, i mercati? – ma lo scandalo di disparità di trattamento assolutamente non giustificabili.
Ora tutto è più difficile. Anche discutere dell’articolo 18. Un paradosso, ma solo per chi non ha antenne per sentire. Se è vero, infatti, che quello che oggi interessa di più ai lavoratori sono strategie industriali che rilancino l’occupazione, politiche passive ed attive che attutiscano gli effetti della crisi, vincoli a un precariato devastante – tutti obiettivi che vanno oltre quel dispositivo di tutela dai licenziamenti individuali – è però evidente che l’ostinazione con cui il governo dei professori ne ha perseguito la sterilizzazione non può che apparire smodata e minacciosa. Nell’ansia per il lavoro che sparisce, si allarga invece la platea di chi ritiene indispensabile ribadire che i lavoratori non sono pedine di cui ci si possa liberare in ogni circostanza, che i licenziamenti devono sempre avere una giusta causa, che il mancato rispetto delle regole deve essere sanzionato con qualcosa di più che un risarcimento economico. Di tutto ciò si doveva tenere conto, ed era ragionevole sperare che a farlo fosse un governo “tecnico”, per definizione non interessato a dividere ulteriormente il movimento sindacale.
Era inoltre evidente, fin dall’avvio del confronto, che non si poteva sottovalutare l’ingombro simbolico che nell’ultimo decennio si è addensato su quel dispositivo. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, introdotto nel 1970 all’indomani dell’autunno caldo per difendere i sindacalisti da rappresaglie padronali allora tutt’altro che rare, è diventato una sorta di spartiacque ideologico tra i militanti della libertà assoluta dell’impresa, quindi dell’insindacabilità non solo del potere dell’economia e del mercato ma anche di quello aziendale, e chi gli contrappone sempre e comunque il valore non negoziabile del lavoro e della dignità delle persone che lavorano. Con in più, da parte dei primi, il carico da novanta di interpretazioni che, contro ogni evidenza, attribuiscono a quel dispositivo forti responsabilità nello scoraggiare gli investimenti stranieri o nello sviluppo di una nuova occupazione.
Non lo si è fatto. Lo “spacchettamento” dell’articolo 18, che conserva il reintegro in azienda del lavoratore ingiustamente licenziato solo per i licenziamenti di cui il giudice accerti la portata “discriminatoria”– mentre è affidata al giudice la scelta tra indennizzo o reintegro nel caso di recessi “disciplinari” illegittimi e si prevede solo l’indennizzo per quelli “economici”- è il solo approdo davvero blindato del confronto tra governo e parti sociali. Non solo. L’attuazione entra in vigore da subito – mentre i nuovi ammortizzatori sociali sono rinviati al 2017 – e riguarda tutti, i nuovi come i vecchi assunti. “L’indennizzo diventa regola”, gongola il Sole24 ore. Anche se le 27 mensilità del valore massimo dell’indennità risarcitoria non sono poca cosa, e infatti nelle associazioni di impresa c’è chi mugugna, la sostanza non cambia. Chi è disposto a pagare può rischiare di procedere a licenziamenti senza giusta causa. In questo quadro i licenziamenti individuali di tipo economico diventeranno un’autostrada? Ci saranno ripensamenti, su questo specifico punto, nel fronte sindacale? E cosa succederà in parlamento, mediazioni accettabili o pretesti per nuove contrapposizioni frontali? Quanto al governo, è difficile sottrarsi all’impressione di un partito preso, perseguito per consegnare il prima possibile anche questo “scalpo” alla parte più liberista dell’Europa e alla sovranità oscura degli irritabili mercati. La normalizzazione dell’Italia del lavoro. La chiusura della stagione della concertazione. Lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori. Incubi e tensioni sociali, di cui non c’era proprio alcun bisogno. E nuovi veleni politici. È solo un effetto collaterale indesiderato lo sconquasso che può nascere nel centrosinistra per i no di Camusso, o nelle intenzioni dei professori c’è stato qualcosa d’altro?
Quanto al resto, cioè ai temi essenziali di una “riforma” del mercato del lavoro, va detto che nelle proposte e anche nel confronto sono curiosamente venuti a mancare proprio quelli che, nei sistemi europei spesso presi a modello, contribuiscono in modo determinante a realizzare l’obiettivo dichiarato dello spostamento delle tutele dal “posto” di lavoro al lavoratore. Cioè le politiche cosiddette “attive” che, aggiungendosi al sostegno al reddito, affiancano la ricerca del lavoro con l’orientamento, la formazione e la riconversione delle competenze, i dispositivi di incrocio tra la domanda e l’offerta. Che prendono in carico le persone in difficoltà, le accompagnano nei faticosi processi dalla disoccupazione a un nuovo lavoro. Un’altra occasione persa – in continuità, bisogna ammetterlo, con una tradizione sindacale di sottovalutazione della complessità del welfare del lavoro – per mettere sotto controllo e riqualificare il sistema, tanto costoso quanto inefficiente, dei nostri servizi per l’impiego e della nostra formazione professionale continua. Non è l’Europa “sociale”, evidentemente, quella cui i nostri professori fanno riferimento. E non sono le solitudini, le fragilità, lo smarrimento di identità di chi è senza lavoro, né il bisogno di informazioni, relazione, riaffermazione di sé, la bussola – anche questa volta – delle politiche del lavoro.
L’insieme delle proposte, comunque, delinea un quadro riformatore non sempre ricco di idee e di piglio innovativo. Talora, anzi, impreciso e scarsamente fondato su chiare ipotesi di fattibilità e sostenibilità, fatto di alcune misure condivisibili e di altre che invece non convincono. Sul contenimento della flessibilità in entrata, per esempio, la direzione di marcia non è affatto quella di un radicale disboscamento dei quaranta e più tipi di rapporto di lavoro, lascito della ripetuta legiferazione dai primi anni novanta fino alla legge Biagi. Se l’utilizzo improprio degli stages viene finalmente impedito e se si pongono limiti all’imposizione del part time, la linea che si sceglie per la pletora di contratti del precariato suona assai più blanda e accomodante. Si tratta, in sostanza, di tentarne lo scoraggiamento attraverso l’aumento del costo del lavoro a chiamata e a tempo determinato, l’appesantimento degli obblighi amministrativi delle aziende per i contratti di lavoro a progetto e l’introduzione, viceversa, di una serie di incentivi per la trasformazione in contratti a tempo indeterminato di quelli a tempo determinato. Quanto alle partite Iva, un insieme di indicatori dovrebbe consentire di accertare se sono vere o finte, ma resta ancora indefinito come questa accertabilità possa poi tradursi in un disincentivo effettivo ad accedere a quelle finte e in una loro sicura contestabilità da parte dei lavoratori. Niente di radicalmente nuovo, infine, rispetto al testo varato da Sacconi sull’apprendistato, tranne la positiva definizione di una sua durata minima e l’altrettanto positiva inclusione anche degli apprendisti – se licenziati – tra i destinatari degli ammortizzatori sociali. Basteranno i disincentivi economici e l’appesantimento degli obblighi burocratici a scoraggiare il ricorso delle aziende al grande vantaggio immediato di un lavoro usa e getta? Non ci sono del resto tracce, nella proposta del governo, di punti di vista più lungimiranti. Né di analisi scientifiche sui rischi molto seri di abbassamento della qualità del lavoro e della produttività del sistema connessi con l’utilizzo crescente di forme di lavoro precario. Sugli effetti che ne derivano, anche in termini di disaffezione e demotivazione al lavoro, instabilità dei team produttivi, incertezze organizzative. Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più da professori che conoscono il vasto mondo.
Più incisivo e lineare, invece, il disegno di riforma degli ammortizzatori sociali che punta a ricondurre alla loro fisionomia originaria la cassa integrazione ordinaria e straordinaria rafforzandone la portata con nuovi fondi di solidarietà presso l’Inps e a introdurre, in sostituzione delle indennità di disoccupazione e di mobilità, un sistema assicurativo (ASpi, assicurazione sociale per l’impiego) tendenzialmente universalistico. Promettente anche l’attenzione ai lavoratori anziani “esodati”, che cioè perdano il lavoro prima di raggiungere l’età pensionabile, per i quali si abbassa di quattro anni la soglia di accesso al trattamento pensionistico. Ma anche qui sono ancora numerosi gli aspetti da approfondire. Non solo la natura giuridica – lavoristica, fiscale o mista – degli strumenti, e quindi le caratteristiche e la capienza delle fonti di finanziamento, ma soprattutto la sostenibilità finanziaria del nuovo sistema. Gli stanziamenti di avvio sono infatti molto modesti, inferiori secondo alcuni studi di almeno quattro volte a quello che occorrerebbe, mentre è ancora da verificare il contributo di carattere mutualistico che può venire dai diversi settori e categorie produttive. Si tratta comunque di dispositivi che dovrebbero entrare in vigore solo a partire dal 2017, e in una situazione dell’occupazione e della disoccupazione ancora largamente imprevedibile. Ci sono dunque ottime ragioni per sostenere che la “riforma” appare per il momento piuttosto squilibrata sia nei contenuti che nella tempistica, e da più versi poco convincente. E per augurarsi che ci siano d’ora in poi le condizioni, nel sindacato e nella politica, che consentano l’introduzione di significativi miglioramenti.