L’atteggiamento autoritario della Germania si ispira ad una nuova forma di nazionalismo economico: l’“Exportnationalismus”. Per contrastarlo serve maggiore conflittualità
Il durissimo braccio di ferro ancora in corso (nonostante la “tregua” di questi giorni) tra “creditori e debitori” – ma sostanzialmente tra Germania e Grecia – ha implicazioni molto pesanti non solo per il futuro della Grecia ma per quello di tutta l’Unione. Il niet della Germania alle modestissime richieste del nuovo governo greco – è opportuno ricordare che Tsipras non chiede altro che la possibilità di rinegoziare il debito in maniera tale da poter ridurre l’avanzo primario di Atene dal 4-5% richiesto dalla troika all’1-1.5% (una manovra che in base a qualunque parametro vagamente keynesiano sarebbe considerata non “espansiva” ma al massimo “meno recessiva”, e comunque insufficiente) e di liberare il paese dall’umiliante “amministrazione controllata” della troika – getta un’ombra molto lunga sulle reali possibilità che vi sono di riuscire a coinvolgere la potenza tedesca nella ben più radicale revisione dell’architettura dell’Unione necessaria, secondo molti, per garantire la sopravvivenza del progetto d’unificazione europea (per una panoramica delle riforme necessarie si veda il documento annuale del gruppo EuroMemo). Come minimo, ci invita a riflettere più approfonditamente sulle reali motivazioni che guidano le scelte – “apparentemente folli”, come ha scritto di recente Paul Krugman, soprattutto considerando gli effetti potenzialmente devastanti di un’uscita della Grecia dall’euro, sia in termini economici e finanziari che in termini politici e geopolitici – dell’establishment politico tedesco.
È ormai noto come la Germania sia il paese che più ha beneficiato dall’euro, che ha permesso alla sua industria esportatrice di godere di un cambio fortemente sottovalutato e al paese di ottenere un enorme avanzo commerciale ai danni degli altri paesi dell’eurozona (anche in virtù di bolle speculative alimentate in quei paesi proprio dal settore finanziario tedesco). Paradossalmente, proprio l’euro – che nelle intenzioni dei francesi e soprattutto di François Mitterrand, doveva servire a limitare il potere tedesco attraverso una moneta comune – ha finito per innalzare ancora una volta la Germania al ruolo di potenza dominante del continente. Da qualche anno, infatti, in Europa si discute nuovamente sulla “questione tedesca” e sull’“egemonia tedesca”. Scrittori come George Soros e Martin Wolf scrivono addirittura di un nuovo “impero tedesco”, forgiato non con gli strumenti della guerra ma unicamente con quelli dell’economia e del commercio (o, come dicono in inglese, with banks instead of tanks). È opinione altresì diffusa, però, che questo sia perlopiù un “impero accidentale”, per usare le parole di Ulrich Beck: un impero, cioè, che non è il risultato di un “piano generale o dell’intenzione di occupare l’Europa” ma che è emerso quasi per caso – addirittura contro la volontà della Germania – in virtù dell’architettura intrinsecamente “tedesca” (o ordoliberale, per essere più precisi) dell’euro.
Se questo può essere vero per il periodo che va dall’introduzione dell’euro fino allo scoppio della crisi finanziaria – in cui gli squilibri macroeconomici sviluppatisi in seno all’eurozona sono tanto il risultato di scelte politiche quali la famosa riforma del mercato del lavoro attuata da Schröder quanto di dinamiche finanziarie perlopiù autonome dalla politica (come il riversamento di enormi flussi di capitale dai paesi del centro verso quelli della periferia) – lo stesso non si può dire del periodo che va dal 2010 ad oggi, in cui la Germania ha effettivamente preso in mano le redini, e in maniera neanche troppo velata, della governance europea, imponendo ai paesi debitori durissimi piani di austerità ed esportando al resto del continente il suo tradizionale modello di crescita basato sulla svalutazione interna (contenimento dei salari e bassi consumi interni) e sulle esportazioni. Ma anche queste politiche – nonostante gli evidenti benefici che hanno apportato alla Germania, per esempio sotto forma di interessi negativi sui bund tedeschi, di interessi guadagnati sui 200 miliardi di euro di titoli pubblici della periferia (di cui circa la metà italiani) acquistati dalla Bce a tassi piuttosto onerosi, della progressiva concentrazione di capitali nei paesi del centro o del salvataggio indiretto delle banche tedesche – vengono imputate più alla cecità ideologica della Germania – che non riuscirebbe a rendersi che la politica mercantilista tedesca non è sostenibile se estesa a tutta l’Unione, poiché implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali ancora più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008 – che al perseguimento di una mera politica di interesse nazionale. Ma è una lettura corretta degli eventi in corso?
Secondo Hans Kundnani, research director dell’European Council on Foreign Relations, no. In un libro di recente pubblicazione, Kundnani traccia un parallelo tra la Germania di oggi e la Germania tra il 1871 e il 1914:
Tra il 1871 e il 1914 la Germania era così grande e forte che nessun paese poteva compensare il suo potere in Europa. Allo stesso tempo, non era abbastanza potente per essere una potenza egemone, in modo da imporre la propria volontà su tutti gli altri. Questo era il nucleo della “questione tedesca”: lo storico Ludwig Dehio ha descritto la posizione della Germania come “halbhegemoniale”, egemonia a metà. Gli storici tedeschi come Andreas Wirsching e Dominik Geppert sostengono come ora la Germania si trovi in una posizione molto simile. La differenza è che il piano egemonico in Europa non è più geopolitico ma “geoeconomico”… Con l’unificazione del 1871 è cresciuto il ruolo della Germania in Europa. Qualcosa di simile è accaduto con la riunificazione. Per quarant’anni è sembrato che la “questione tedesca” fosse stata risolta grazie alla divisione del paese, ma è tornata viva quantomeno dopo la crisi dell’euro. Questo è dovuto, oggi come allora, alle dimensioni della Germania e alla sua posizione centrale in Europa. L’euro si è aggiunto come parte del problema.
Alle somiglianze strutturali tra i due periodi, sostiene Kundnani, si aggiungono anche delle somiglianze in fatto di zeitgeist culturale:
Dopo l’impero c’era un certo trionfalismo in Germania: Nietzsche descrisse la percezione in voga in quel periodo, e cioè che nel 1871 la Germania non era solo superiore militarmente, ma anche culturalmente. La mia impressione è che dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 sia emerso un nuovo trionfalismo in Germania. Molti tedeschi credono che la crisi finanziaria abbia confermato che il loro modello economico sia superiore a quello anglo-americano. Così è tornata in auge l’idea di un “modello tedesco”. Quasi la metà del prodotto interno lordo della Germania dipende ora dalle esportazioni. Ci si potrebbe lamentare che ciò rende la Germania molto vulnerabile e dipendente dalla domanda internazionale. Invece è diventata una fonte di orgoglio nazionale. Trovo incredibile la naturalezza con la quale alcuni politici tedeschi hanno recentemente parlato di “nazione esportatrice”. “Economia esportatrice” è il termine che conoscevo. Ma “nazione esportatrice”? Questo sembra suggerire che le esportazioni non sono solo importanti per l’economia tedesca, ma anche per la sua identità… Capisco come “nazionalismo” sia un termine forte in tedesco. Ma già nel 1990 Jürgen Habermas scriveva del “nazionalismo del marco tedesco”. Secondo la mia opinione, ora si può parlare di un nuovo nazionalismo economico, l’”Exportnationalismus”, che rende difficile la soluzione della crisi dell’euro da parte della Germania… poiché l’economia tedesca è molto dipendente dalle esportazioni, e vuole mantenere la sua competitività al di fuori dell’Europa.
Dobbiamo concludere che l’Europa – e in particolare l’eurozona – è spacciata? No, ma dobbiamo sapere che, se l’analisi di Kundnani è corretta, una strategia che si limiti a fare appello alla Germania affinché passi “da un’egemonia autoritaria a un’egemonia illuminata”, come scrisse nel 2013 l’allora semplice economista Yanis Varoufakis, rischia di rivelarsi pericolosamente naïf e per questo controproducente, proprio perché ignora la realtà dello scontro intercapitalistico che attraversa la crisi europea (una realtà che Varoufakis, nella sua nuova veste di ministro delle finanze greco, sta imparando a sue spese). Al contrario, scrive Kundnani: “L’unica maniera perché i leader della Francia, dell’Italia e della Grecia riescano ad ottenere quel cambio radicale di politica economica necessario per rilanciare la crescita e l’occupazione in questi paesi è adottare un approccio molto più conflittuale nei confronti della Germania. In questo senso, i dilemmi geopolitici che hanno perseguitato l’Europa per secoli sembrano essere oggi tornati sotto forma di un conflitto geoeconomico tra creditori e debitori”.
Scrive PierGiorgio Gawronski che Varoufakis “ha commesso un grave errore psicologico. Poteva chiedere e ottenere uno sconto sul debito, cappello in mano. Ma non poteva sfidare simultaneamente l’orgoglio della Germania, l’ortodossia liberista, l’ideologia del Potere”. Noi pensiamo invece che abbia fatto bene, e che sarebbe a tutti gli effetti nell’interesse nazionale di paesi come l’Italia e la Francia sostenere la Grecia nella sua battaglia per un ribaltamento delle politiche di austerità, a partire da una ricontrattazione del debito, come ha sostenuto di recente anche Vincenzo Visco sulle pagine del Sole. E invece, anche per via di una feroce campagna mediatica anti-Tsipras (si veda per esempio l’ultimo numero di Panorama) – che senz’altro risponde a interessi che trascendono quelli nazionali – stiamo assistendo all’esatto opposto. Un fatto che danneggia non solo la Grecia, ma anche noi stessi, e più in generale il futuro del progetto di integrazione e di unificazione europea.