Pur senza ridurre il razzismo a mera funzione di sfruttamento, i dati mostrano un solido nesso tra questo e l’economia. Non a caso il razzismo moderno si è affermato a partire dall’espansione coloniale che ha sorretto l’emersione del capitalismo europeo.
L’immigrazione è il principale strumento usato dalle destre nazionaliste. Ma questi difensori del popolo spesso fanno gli interessi di specifici settori del capitale. Comunemente, dei settori più bisognosi della protezione statale e meno interessati all’integrazione economica internazionale. Il libero mercato non è mai stato libero, ma con l’attacco degli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e alle altre istituzioni sovranazionali, stiamo assistendo a un cambio di passo.
Anche la Brexit riflette simili divisioni tra le élites (con buona parte della city di Londra tendenzialmente contraria al progetto dei liberisti di Johnson, di Farage, e dello European Research Group che vogliono creare un paradiso fiscale di fronte al continente europeo). Negli Stati Uniti la legittimazione di questi interessi passa anche per la mobilitazione del risentimento razzista delle classi medie e (sub)proletarie determinato dal declino relativo del proprio privilegio.
Diversi fattori operano nella realizzazione di questo esito: da un lato le minoranze, lentamente, acquisiscono più diritti, dall’altro la ristrutturazione neoliberale dell’economia ha indebolito le protezioni garantite dalla cittadinanza nazionale. Si è così potuto razzializzare un conflitto altrimenti verticale tra i pochi ricchi e i molti poveri e impoveriti. Questa razzializzazione è volta, illusoriamente, al recupero di alcuni diritti garantiti dallo stato nazional-sociale, come giustamente lo definisce Etienne Balibar, saldandosi così con i progetti di alcune frazioni del capitale.
In Italia, queste divisioni vedono contrapporsi il campo utilitarista-democratico, che vuole una parziale emersione del lavoro irregolare dei migranti (che pure segnerebbe un importante passo avanti per quest’ultimi) e quello nazional-populista di chi persevera nella loro criminalizzazione e sfruttamento. Il razzismo è un fenomeno di gerarchizzazione e naturalizzazione delle differenze a vantaggio del gruppo dominante. Pur senza schiacciare il razzismo alla mera funzione di sfruttamento, molti dati mostrano un solido nesso tra esso e l’economia.
Non a caso molti studiosi hanno messo in rilievo che il razzismo moderno si è affermato a partire dall’espansione coloniale che ha sorretto l’emersione del capitalismo europeo. In merito si legga l’importante saggio del sociologo peruviano Anibal Quijano sulla colonialità del potere, ovvero sul permanere di una divisione razziale del lavoro inaugurata con la scoperta dell’America. A questa tesi si può affiancare e, in parte, contrapporre quella di Cedric Robinson. Questi in Black Marxism (1982), sostiene che il capitalismo razziale sarebbe nato prima del 1492, all’interno del sistema feudale europeo e in relazione alle forme di razzialismo sviluppatesi nel continente. Se fino a oggi le potenze del sistema-mondo sono state tutte europee non è un caso.
La Cina potrebbe interrompere questo percorso, come scriveva nel 2007 Giovanni Arrighi, che pure non ne aveva sottolineato a sufficienza i limiti, vagheggiando di una nuova Bandung. Venezia, il Portogallo, l’Olanda e infine gli Stati Uniti – questa la successione descritta in Il lungo XX secolo (1994) – sono tutte concentrazioni di potere economico e politico sviluppatesi facendo uso di violenza razzializzata: dalle forme di scambio ineguale, al colonialismo, fino al sistema di produzione schiavistico.
Al di là di questo dibattito, è importante sottolineare che il razzismo non è una forma di irrazionalità, un semplice errore egoistico, come vorrebbe far credere, tra i tanti, Ezio Mauro nella sua recensione al recente libro di Marco Aime (la Repubblica dell’8 febbraio 2020). Il razzismo è un fenomeno intrinsecamente moderno, legato alle aporie dell’egualitarismo e dell’universalismo, come spiega George Fredrickson nel suo Breve storia del razzismo (2002) o come affermava il compianto Immanuel Wallerstein nell’ormai introvabile Classe, nazione, razza (1992). E ogni razzismo ha una dimensione sessista, ossia una specifica gerarchia etero-patriarcale, con le connesse forme di giustificazione.
Anche in Italia il processo di marginalizzazione dei migranti va avanti da decenni e si iscrive in una lunga storia di razzismo che ha radici nella rappresentazione delle popolazioni meridionali, nel colonialismo italiano e nell’antisemitismo. Come già notava Laura Balbo nel 1989 in un interessante dibattito uscito su Problemi del socialismo, l’approccio italiano alle migrazioni è rappresentato dalla frase di Max Frisch (relativa agli italiani in Svizzera): “volevamo braccia, sono arrivate persone”. I migranti servono all’economia e al welfare, ma non devono esistere nella società. Il loro destino è la morte sociale (e, di alcuni, fisica: nel Mediterraneo e in Libia).
La negazione della cittadinanza al milione di persone che sono nate o cresciute qui ne è solo uno degli esempi più eclatanti. Quando il ciclo economico cambia, gli stranieri sono i primi a perdere il lavoro e ad essere additati come nemici pubblici. Vite con un valore inferiore, che possono spegnersi nel mare o nei campi nell’indifferenza generale o esser espulse al bisogno. Vite pericolose per gli italiani in quanto tali. I decreti di Salvini si chiamano “sicurezza” invece che “immigrazione”, perché i termini sono concepiti come antitetici. Vite che possono essere spremute nei lavori più degradanti e con le paghe più basse.
Vite utili peraltro, che servono, come hanno spiegato diversi studi della Banca d’Italia. Senza migranti – a causa dei trend demografici negativi e della bassa crescita della produttività ‒ il PIL italiano sarebbe condannato a un brusco declino. I 2,5 milioni di lavoratori stranieri rappresentano il 10,6% degli occupati e contribuiscono al 9% del PIL (1.765 miliardi di euro). Ad essi bisogna sommare i circa 620.000 stranieri irregolarizzati (ISPI) – in crescita grazie ai decreti Salvini ‒ che lavorano nell’economia sommersa (il cui valore complessivo ammonta a 192 miliardi).
Data la loro età ricevono meno di quanto versano in contributi pensionistici, contribuendo con 3,9 miliardi netti di contributi alle casse dell’INPS. I settori in cui prevalgono sono anzitutto il lavoro domestico e di cura (il 69% degli occupati sono stranieri, in maggior parte donne) che segnala un enorme problema di welfare e parità dei diritti tra sessi. A seguire c’è l’agricoltura (un quarto della forza lavoro per Coldiretti, più della metà nel segmento stagionale), fiore all’occhiello del cosiddetto made in Italy, dove le condizioni di vita e di lavoro spesso finiscono sui media, senza che seguano efficaci cambiamenti normativi.
Quindi, ci sono le costruzioni e il lavoro in alberghi e ristorazione (rispettivamente il 17% e il 17,9% degli occupati), e quindi il facchinaggio e i trasporti (11%) e la manifattura (9,4%). Negli altri servizi sono il 36,6% e nel commercio il 7,8. Come si può agevolmente vedere, i settori in cui gli stranieri prevalgono sono quelli in cui la qualifica è più bassa. Ma questo spesso non riflette le effettive competenze dei lavoratori. Secondo il rapporto Istat del 2019, infatti, il 20% degli stranieri laureati occupati «svolge un lavoro a bassa specializzazione (rispetto allo 0,7 per cento degli italiani) e solo il 36,9 per cento una professione qualificata (81,8 per cento nel caso degli italiani)».
Per le donne straniere è ancora peggio. Per loro si pensa che l’unica attività consona sia il lavoro domestico e di cura. Così da permettere alle donne italiane di entrare nel mercato del lavoro. Tito Boeri, così come il presidente dell’Associazione di datori di lavoro domestico – chiamata Domina ‒, in un articolo su la Repubblica del 4 febbraio, scrive: «con il loro lavoro [gli stranieri] ci permettono di assistere molte persone non-autosufficienti senza impedire soprattutto alle donne di lavorare e generare reddito». Le donne sono italiane, quelle straniere non contano.
Domina parla di un mercato da 7 miliardi di euro, dove le retribuzioni si aggirano tra i 6.000 e i 7.000 euro annui e le condizioni psico-fisiche sono pesantissime. Le famiglie di chi lavora nelle case degli italiani sono invece abbandonate nel paese di provenienza, spesso grazie al lavoro gratuito di altri membri della famiglia o di donne di classi ancora più svantaggiate, come mostrano molti studi sulla catena globale del lavoro domestico. È evidente che ci sia ben poco di cui esser lieti.
Le dinamiche dei salari, del part-time involontario, dei tassi di disoccupazione, della concentrazione nei lavori più faticosi segnalano tutte la stessa cosa. I lavoratori stranieri vivono in un mercato del lavoro strutturalmente meno tutelato e con salari più bassi di quello a cui accede la maggior parte dei cittadini italiani. Alcuni studiosi e politici “progressisti” si compiacciono del fatto che la competizione tra lavoratori stranieri e italiani non esista, perché il mercato è segmentato.
Balbo notava invece che questa dinamica indica l’operare di una ghettizzazione strutturale, di un razzismo istituzionale. La normativa favorisce la marginalizzazione dei migranti e crea una vera e propria integrazione subalterna, come ebbe a definirla Maurizio Ambrosini. La sostanziale chiusura dei canali d’accesso legali – i noti decreti flussi – ha accentuato la ricattabilità degli stessi. La produzione sociale e giuridica dell’illegalità e dell’esclusione favorisce una maggior sfruttabilità dei lavoratori. La soppressione del sistema SPRAR e l’abolizione della protezione umanitaria riguardano questo aspetto.
Il nesso tra economia e migrazioni non è però quello individuato da chi vorrebbe avvelenare la società e dividere i lavoratori (ché questo sono, in larga parte, i migranti). Il nodo andrebbe affrontato come occasione per ricomporre la “parte dei senza parte”, per sperimentare nuove forme di cittadinanza oltre lo Stato nazione. L’Europa smetterebbe così di garantire la libera circolazione ai pochi per diventare uno spazio di diritti per i molti.
Anche di questo si è discusso nella due giorni del forum “Per cambiare l’ordine delle cose” (svoltosi a Spin Time Labs e ESC Atelier l’8-9 febbraio scorsi) dove Elly Schlein ha parlato della riforma del Trattato di Dublino approvata dal Parlamento europeo ma bloccata dai paesi di Visegrad in Consiglio europeo, Gianfranco Schiavone (dell’ASGI) ha affrontato il tema della privatizzazione dell’accoglienza e di cosa fare per creare un sistema più giusto, mentre Gabriele Del Grande – curatore del sito Fortress Europe che conta le morti determinate dal regime dei confini europeo – ha spiegato come sia stata la politica dei visti a creare l’insicurezza dei viaggi dei migranti, con tutta l’economia illegale che vi è sorta intorno. Enrica Rigo, invece, ha spiegato il processo di integrazione differenziale che riguarda i migranti e denunciato l’esclusione determinata dalla cittadinanza nazionale.
Laura Boldrini poi (contestata per le politiche del suo partito sull’esternalizzazione delle frontiere) ha concluso chiedendo al Forum di impegnarsi con altri soggetti della società civile per fare pressione sul Parlamento al fine di approvare la legge sulla cittadinanza, abolire i decreti Salvini, non rinnovare il memorandum con la Libia e approvare il progetto di legge Ero Straniero. Oltre a loro e ad altre, tante sono state le attiviste e gli attivisti intervenuti a sviluppare il dibattito. La campagna sarà incentrata sui visti e sul regime di (in)visibilità imposto ai migranti.
Solo un’ampia mobilitazione delle centinaia di associazioni e movimenti attivi, in cui le organizzazioni di migranti abbiano maggior protagonismo, potrebbe permettere di superare i limiti dell’attivismo antirazzista e radicale italiano. Contro il razzismo della destra e contro la miopia delle forze democratiche potremmo così immaginare un presente meno cupo e violento, di cui i crescenti episodi di antisemitismo sono solo l’ultimo episodio.
L’articolo è stato pubblicato anche su volerelaluna.it