Welfare, fisco e lavoro. Cosa c’è e cosa manca nel programma economico del neosegretario del partito democratico, Matteo Renzi
La schiacciante vittoria di Matteo Renzi alle scorse primarie è sicuramente una rivoluzione generazionale, ma non certo culturale e politica. I segnali di un liberismo economico che rimane sempre rampante nelle file del Pd c’erano già tutti prima ancora delle primarie. Basta riguardarsi la puntata di Anno Zero in cui Matteo Renzi delineava il suo programma economico, già sezionato e criticato da Angelo Marano su Sbilanciamoci. In particolare, ci si concentrava su una riforma del welfare che rischia di attaccare le pensioni di anzianità, e non solo quelle dei più ricchi – visto che con tutta evidenza i risparmi effettuati dalla sola riduzione delle pensioni più alte (ma perché non si alza invece l’aliquota sui redditi?) sarebbero risibili nella contabilità generale.
All’indomani delle primarie, Renzi ha poi nominato come suo responsabile per l’Economia Filippo Taddei, già estensore del programma economico di Civati. Una svolta a sinistra? Qualche dubbio c’è. Sul welfare, le proposte di Civati e Renzi erano e restano sovrapponibili. In una intervista a caldo a Europa, Taddei ha poi elencato quelle che per lui sono le priorità dell’economia italiana: “Il primo [ingrediente] è senza dubbio il superamento della dualità del mercato del lavoro tra garantiti e non garantiti.” Già il lessico ci spiega bene la posizione di Taddei: se per Renzi i privilegiati del welfare sono i pensionati, per il suo responsabile economico i privilegiati (cfr anche il programma di Civati in proposito) sono gli assunti a tempo indeterminato. Del fatto che, forse, i privilegiati, in Italia, non siano gli operai o gli insegnanti a 1.500 euro, ma i detentori dei grandi patrimoni, nell’intervista non vi è traccia. Nuovamente, e in linea con le riforme di questi anni – e ancor più in linea con le parole d’ordine renziane – il conflitto non è sociale (ricchi contro poveri), ma generazionale (anziani contro giovani, cioè pensionati contro lavoratori, e lavoratori “anziani” con contratti a tempo indeterminato contro “giovani” precari).
Gli altri due punti imprescindibili per Taddei sono l’universalizzazione dell’assegno di disoccupazione e la diminuzione delle tasse sul lavoro. Punti di sinistra? No. E per altro piuttosto in contraddizione tra loro. Nel primo caso, nel giro di un giorno si è passati dal reddito minimo proposto da Civati a una estensione delle tutele per i disoccupati, qualcosa di molto diverso. Nessuna difesa del lavoro, tutt’altro, quanto piuttosto un supporto maggiore per chi perde l’impiego, in linea con una generale maggiore flessibilità in uscita – come sembra lasciar intendere il sopracitato superamento della dualità del mercato del lavoro. Uno strumento marcatamente liberale per mercificare ulteriormente il lavoro stesso.
Quanto alle minori tasse sul lavoro, ovviamente si tratta di una proposta di buon senso e condivisibile, ma che davvero non ha nulla di sinistra – non a caso le tasse minori su lavoro sono in paesi liberali. Che modello sociale, che tipo di capitalismo, si ha davvero in mente allora? Tasse e assistenza sociale basse combinate con garanzie medio/alte o tasse alte (e welfare estensivo) in presenza di poche garanzie – come ad esempio la flexsecurity danese, cui si parrebbe voler puntare con il sussidio di disoccupazione? Qui sembra volersi botte piena – tasse più basse – e moglie ubriaca – universalizzazione del welfare. Il rischio è ritrovarsi invece in un modello con poche protezioni sociali e grande flessibilità. Il dubbio è rafforzato dalla vaghezza assoluta su dove reperire le risorse. Durante la campagna per le primarie, nel programma di Civati si parlava di IMU e della sua reintroduzione, ora Taddei su Europa parla di costi della politica. Entrambe le cose in realtà, porterebbero a risparmi irrisori (1 miliardo di euro, forse, secondo Roberto Perotti, anche se Taddei su Repubblica ha parlato di una cifra vicino ai 15 miliardi), certo non sufficienti per intervenire in maniera efficace.
Soprattutto, però, è lecito domandarsi se siano questi gli elementi cruciali per l’economia italiana. Partire dall’ennesima riforma del mercato del lavoro – o meglio, togliere la dualità, come è stato detto – sembra puntare nella direzione sbagliata. Va affrontato il problema della precarietà, non ci sono dubbi, ma non mettendolo in contraddizione – inesistente in effetti – con i cosiddetti garantiti. Diminuire il costo del lavoro avrebbe certamente un impatto positivo sui redditi e sui costi dell’impresa e l’intenzione, meritoria, è di riattivare un ciclo virtuoso consumo-investimenti. Rimane però da stabilire come si finanziano queste minori entrate. Per Renzi il punto decisivo rimane sempre diminuire le tasse, e cioè ridurre la spesa pubblica. Che questa vada riorganizzata non ci sono dubbi, a cominciare ovviamente dagli sprechi. Il modello meno tasse è però assai poco convincente: le tasse andrebbero ridotte ad alcuni e aumentate ad altri.
Non sorprende dunque che dal campo di Renzi ci sia silenzio assoluto anche sulla patrimoniale, non foss’altro che per diminuire il debito. Allo stesso modo non si parla neppure di altre imposte – su rendite, redditi alti, successione – né di alcun piano per ridistribuire la ricchezza, forse il tema centrale del capitalismo contemporaneo. Alla stessa maniera, non c’è alcun accenno al ruolo dello Stato in economia e alla sua funzione decisiva per uscire dalla crisi, a meno che non ci si aspetti che la riduzione del cuneo fiscale possa essere salvifica in presenza dei programmi di austerità europei che non sembra volersi ridiscutere.
Insomma, manca – e non poteva essere altrimenti – una sostanziale svolta a sinistra. Quel che si offre, invece, è una riproposizione di politiche liberali in continuità con le scelte del l’Europa, senza nessuna proposta coraggiosa e di rottura, di riesame critico dei modelli economici dominanti e delle cause e conseguenze della crisi attuale. Un programma per una modernizzazione “liberale” per l’Italia che il Pd porta avanti, senza successo, da una ventina d’anni. Che poteva aver forse senso a metà anni novanta, ma che sembra obsoleto all’ombra di una crisi che è mondiale e non solo italiana.