C’è un filo rosso tra la vicenda dell’abolizione della scala mobile di trent’anni fa e quella odierna dell’abolizione dell’articolo 18?
C’è un filo rosso tra la vicenda dell’abolizione della scala mobile di trent’anni fa e quella odierna dell’abolizione dell’articolo 18? È una domanda che può apparire strana collegando eventi così lontani nel tempo e caratterizzati da una propria netta specificità. Se un tratto comune lo si può rintracciare è nel lungo clima di pressione mediatica per costruire una convinzione sociale che l’eliminazione di un “privilegio” per una parte della società è a fin di bene per l’intera società e, si ammicca, anche per la parte che ne è colpita. Se fosse solo questo aspetto a accomunare le due vicende si tratterebbe di ben poca cosa per sollecitare una riflessione in merito, ma si ha l’impressione che vi sia un legame più profondo tra le due vicende.
L’intervento diretto ad abolire la scala mobile realizza l’obiettivo ossessivamente perseguito dalla politica economica di quella destra rampante degli anni ottanta che riteneva la dinamica inflazionistica dipendere da un’eccessiva protezione del salario reale e che quindi puntava a eliminare la garanzia del recupero del potere di acquisto da parte dei salari in modo da bloccare da questo lato la spirale salari/prezzi. Si argomentava che era un costo necessario compensato dal rilancio della crescita economica all’interno del modello emergente di liberismo radicale. La questione che si pone oggi con l’articolo 18 è in apparenza molto diversa, dato che non riguarda il salario reale ma il livello dell’occupazione i cui insufficienti risultati sono ossessivamente interpretati dai piccoli emuli del pensiero craxiano quale effetto di un’eccessiva protezione dei posti di lavoro esistenti (limitata peraltro solo a parte dei lavoratori), che costituirebbe una barriera all’ampliamento dell’occupazione complessiva. Anche in questo caso si sostiene che l’eliminazione di questa garanzia sarebbe sufficiente a espandere la domanda di lavoro delle imprese in favore di un’espansione dell’occupazione e della crescita produttiva.
Come si può notare i tempi sono cambiati. Se negli anni ottanta l’attenzione era rivolta alle politiche salariali che miravano a garantire una più equilibrata struttura dei redditi dei lavoratori, oggi le critiche sono dirette alle condizioni normative che mirano a garantire condizioni di lavoro (e di vita) meno precarie per la dignità e le prospettive di vita dei lavoratori. Là le condizioni di salario, qui le normativa del lavoro; là l’abolizione della scala mobile come preteso strumento di politica dei redditi, qui l’abolizione dell’articolo 18 come preteso strumento di politica dell’occupazione. Situazioni molto diverse, ma entrambe volte a rendere il “lavoro” più adattabile alle condizioni dettate dal modello produttivo emergente a suo tempo, e oggi dominante. In entrambi i casi gli interventi proposti (il primo anche attuato) sono giustificati come essenziali al rilancio industriale. Va peraltro ricordato che sul terreno dello scambio salario/crescita si è sviluppato un ampio e contrastato dibattito di politica economica tra chi riteneva che fosse determinante e prioritario raffreddare la crescita salariale per rilanciare la crescita produttiva e chi invece argomentava che il nodo risiedeva nelle insufficienze della struttura produttiva che avrebbero dovute essere affrontate prioritariamente con appropriate politiche industriali, al cui interno avrebbe dovuto porsi una politica dei redditi di difesa del salario reale.
Sappiamo come è andata. Nonostante il persistente contenimento del salario reale che ne è seguito, i maggiori gradi di libertà acquisiti dalle imprese non hanno modificato l’orientamento della loro accumulazione. Ne è risultato un rafforzamento della ristrutturazione industriale caratterizzata da processi di destrutturazione dei grandi impianti, di delocalizzazione e di precarizzazione che, pur favorendo la crescita della profittabilità d’impresa, non ha prodotto quella ascesa nella qualità innovativa dei processi di produzione e dei prodotti necessaria per la competizione globale. I decenni successivi si sono infatti caratterizzati da un assetto industriale in difficoltà competitive, da lenta crescita economica, da regresso nelle condizioni salariali e occupazionali, da una crescente disuguaglianza nella società e da un depauperamento dello sviluppo sociale.
Siamo ormai abituati a constatare che la risposta di chi ha sbagliato politica è quella di insistere sulle politiche sbagliate nella convinzione che non sono state realizzate con la dovuta radicalità. Non meraviglia quindi che nell’ultimo decennio i tristi epigoni degli anni craxiani, di fronte a uno stentato sviluppo industriale (e a quello economico complessivo) non siano stati in grado di formulare alcuna spiegazione che non si intestardisse sui “privilegi” di cui godrebbe una fascia di lavoratori quale causa del mancato miracolo economico. Con la speciosa conclusione che solo con l’eliminazione delle garanzie che regolano il rapporto di lavoro (art. 8 e art. 18) questa classe industriale avrebbe potuto far leva su un mercato del lavoro liberato da ogni vincolo per rilanciare la crescita produttiva. Ovviamente nella sua interpretazione il costo subito dai lavoratori sarebbe stato compensato da migliori prospettive di sviluppo sociale e civile.
Si tratta di un’analisi di rara banalità che non meriterebbe nemmeno di essere richiamata se non fosse che il ribaltamento dell’ordine logico e fattuale tra politica industriale e politiche del lavoro sembra ripresentarsi anche in un governo dei tecnici che queste cose dovrebbero aver ben presenti, a meno che la “tecnicità” non sia intesa in senso così ristretto da non porsi il problema delle sue implicazioni politiche e sociali. è evidente la pericolosità di una visione “continuistica” con il governo precedente per il perdurare di una visione per cui la “riforma” del mercato del lavoro è propedeutica a una politica industriale con il rischio di non comprendere quanto la storia della scala mobile ci ha insegnato e che, tradotta nella questione di oggi, non preannuncia nulla di buono. L’eliminazione del “privilegio” normativo realizza sì il sogno dei cultori indefettibili del mercato poiché rende tutti i lavoratori “uguali”, ma al costo di trascurare le implicazioni di generale precarizzazione che una libera concorrenza individuale produce in un contesto di strutturale disoccupazione. L’effetto di classe è “egualitario”, ma di segno opposto rispetto agli anni settanta. È auspicabile che, in vista dei potenziali effetti in termini di precarizzazione delle vite e di depauperamento dello sviluppo civile che deriverebbero da una politica economica che affronta in maniera impropria il vero ordine dei problemi da affrontare, il governo ponga come prioritaria una politica industriale di innovazione produttiva e sociale (sulle linee degli spunti che da tempo vengono offerti da www.sbilanciamoci.info e non solo), al cui interno collocare una politica del lavoro (non del mercato del lavoro) che prospetti condizioni di stabilità di reddito e di dignità delle condizioni di lavoro. Obiettivi che dovrebbero essere ovvi per qualsiasi governo che abbia a cuore la solidità della nostra democrazia.