Il lavoro deve essere anche una scelta, e porre l’accento su questo aspetto cruciale significa reagire al fatto che il dibattito pubblico e le scelte politiche appaiono governate esclusivamente da un principio di realismo che, in realtà, deriva al tempo stesso dal ricatto e dalla volontà di disciplinamento che da questo ricatto trae forza
Il Workers Act propone una analisi organica e articolata e avanza proposte argomentate ed attuabili, alcune delle quali presentano caratteri innovativi. Per questo, anziché ripercorrere i punti sui quali concordo, credo sia più utile soffermarmi su cinque aspetti che – a mio avviso – presentano alcune lacune.
1. Si tende a stabilire una correlazione quasi univoca tra la qualità del lavoro e la sua stabilità (vedi, ad esempio, p. 68). Certo, la stabilità è un requisito essenziale, perché la qualità non può essere fondata sulla precarietà. Purtroppo, l’elevato tasso di disoccupazione giovanile e la crescente frantumazione delle tipologie e delle tutele dei contratti di lavoro, combinati insieme, hanno progressivamente spostato l’attenzione dal lavoro come emancipazione integrale della persona (non solo strumento per il soddisfacimento di bisogni materiali, quindi, ma anche luogo per la realizzazione di aspirazioni) al lavoro come pura e semplice necessità. Ma il lavoro deve essere anche una scelta, e porre l’accento su questo aspetto cruciale – anche se a prima vista può apparire come un approccio non realista di fronte alla gravità della crisi e della disoccupazione – significa reagire al fatto che il dibattito pubblico e le scelte politiche appaiono ormai governate esclusivamente da un principio di realismo che, in realtà, deriva al tempo stesso dal ricatto (per cui è l’emergenza a dettare le priorità, e di fronte all’emergenza tutte le soggettività devono adeguarsi) e dalla volontà di disciplinamento che da questo ricatto trae forza. Per questa strada l’ideologia del mercato come unico meccanismo regolatore della domanda e dell’offerta di lavoro si afferma non solo sul piano economico, ma anche su quello culturale, con conseguenze profonde sulla percezione diffusa del problema e delle sue possibili soluzioni (ad esempio, diventa “oggettivo” il fatto che non esiste – e non è desiderabile che esista – alcuna correlazione tra il percorso scolastico e il lavoro svolto).
2. A mio avviso sarebbe importante dedicare uno spazio specifico al lavoro pubblico, investito da una sistematica operazione di delegittimazione che è funzionale alla delegittimazione dell’intero spazio pubblico. Occorre esaminare cosa significa lavorare nel settore pubblico, quali sono i diritti di cittadinanza ad esso connessi, quali spazi di innovazione e sperimentazione potrebbe consentire. Per questa analisi, però, è necessaria anche una severa lettura critica non solo della dimensione burocratica che continua ad essere radicata ed estesa, ma anche delle ragioni per cui le organizzazioni sindacali sono state inerti di fronte all’immobilismo connaturato al settore (connaturato in senso storico, non in modo naturale) ed abbiano sempre rinunciato a rivestire un ruolo di stimolo all’innovazione e al cambiamento.
3. Si afferma che “è necessario pensare a modelli di smart cities” (p. 73). In realtà, una critica del modello economico dominante dovrebbe necessariamente incorporare una critica a concetti che sono entrati nel linguaggio pubblico ma non sono stati adeguatamente definiti e analizzati nei loro presupposti culturali e nelle ricadute sociali ed economiche. Quello di smart cities è un concetto controverso e credo sia opportuno evitare di adottarlo senza sviscerarlo, anche perché porta con sé elementi che ben si adattano a una ristrutturazione del governo delle città molto più conforme alla cultura neoliberista di quanto appaia a prima vista. Questo aspetto può sembrare secondario rispetto alla struttura complessiva del documento, ma a mio parere occorre evitare cedimenti verso ideologie mainstream che tendono a inquinare il rigore dell’analisi e la credibilità delle proposte.
4. Viene posto in rilievo (p. 27) l’atteggiamento difensivo che caratterizza l’odierno dibattito sulla nuova organizzazione sociale dei tempi di lavoro a causa dell’erosione del potere contrattuale dei lavoratori e dell’esclusione delle rappresentanze sindacali dalle trasformazioni del mondo del lavoro per effetto della nuova legislazione. Tuttavia andrebbe ricordato che la marginalizzazione del sindacato è anche effetto di un processo endogeno. E’ stato infatti lo stesso sindacato ad abbandonare progressivamente il tema cruciale dell’organizzazione del lavoro per trasformarsi sempre più in organismo di rappresentanza degli interessi e dei diritti, ma – svincolandoli dal terreno concreto (come il lavoro è disciplinato e vissuto, se è completamente eterodiretto oppure contaminato da forme di autogoverno, etc.) – ha aperto le porte a visioni corporative e conservatrici.
5. Questo aspetto va riconosciuto e ricostruito per inquadrare le prospettive aperte dal capitolo sulla riduzione degli orari e la redistribuzione del lavoro, che rappresenta, a mio avviso, un passaggio del documento decisivo e denso di implicazioni sociali non confinate esclusivamente all’interno dei luoghi di lavoro. La “reticenza delle aziende a modificare la loro organizzazione” (pp. 90-91) è anche una reticenza dei lavoratori e delle organizzazioni che li rappresentano, e deriva da quella smobilitazione della cultura sindacale cui ho accennato e che ha reso il termine “flessibilità” impronunciabile ben prima che diventasse il vessillo del nuovo e aggressivo corso neoliberista. La proposta di una gestione flessibile dei tempi di lavoro non può quindi essere veicolata solo attraverso una rivendicazione nei confronti degli imprenditori, e presuppone una ridefinizione (che non è solo politica, ma anche culturale) degli spazi di azione delle organizzazioni sindacali.