La depressione del disoccupato e quella del precario, l’alienazione del professionista dequalificato e l’appiattimento di alcuni impieghi pubblici. Il lavoro ai tempi della grande crisi
Ho iniziato a lavorare per una società partecipata all’età di trentatré anni. Prima non sapevo neppure cosa fosse una società partecipata, ossia una di quelle società a cui vengono affidati in house i servizi pubblici locali. Avevo delle idee confuse su molte cose. Per esempio, conoscevo poco i meccanismi che regolano le vite dei lavoratori subordinati, impiegati d’ordine e di concetto che prestano per tutta la vita la loro opera alle dipendenze di aziende pubbliche e private senza arrivare a capire mai, fino in fondo, a cosa serva effettivamente il loro lavoro, la categoria sociale che Karl Renner, con una lucida e spietata definizione, chiamava classe di servizio.
Prima di diventare anch’io quel tipo di stipendiato, mi ero logorato – come tanti della mia generazione – tra impieghi precari e malpagati e lunghi, spossanti periodi senza lavoro. La disoccupazione, in particolare, dicono che faccia fare cose strane. Io, da disoccupato, ero arrivato al punto di non poter più guardare nemmeno la televisione, tanto ero roso dall’invidia per chiunque avesse un lavoro. Ero depresso, ma mi dicevo: «Datemi un’occasione e vedrete che so fare». In certe infinite mattine di ore estinte mi vestivo di tutto punto con un abito grigio, annodavo la cravatta, infilavo un paio di scarpe lucide e mi fermavo davanti allo specchio. A volte rimanevo per ore a guardarmi in quello stato, a scrutare i miei occhi spenti, i capelli arruffati, le occhiaie marcate sul viso, a cercare di vedere come sarei stato se in un’altra vita avessi avuto la possibilità di essere una persona normale con un lavoro normale.
Così, il giorno che mi chiamarono per un colloquio con il responsabile delle risorse umane di questa società, ero un uomo sfiduciato, senza prospettive, con una rabbia costante nei confronti di tutto. Ero un fantasma fermo davanti alle rotaie morte.
Il colloquio andò a buon fine. Mi assunsero e divenni per la prima volta nella mia vita un impiegato d’ordine, il che – si capisce – diede una sterzata significativa alla mia vita.
Il primo ufficio a cui mi assegnarono si trovava in un dipartimento che faceva capo all’ente proprietario della mia società. L’ufficio si occupava per sommi capi di comunicazione istituzionale. Il responsabile delle risorse umane mi disse: «A giudicare dal tuo curriculum credo che sia il posto giusto per te».
La sede di lavoro si trovava in un quartiere periferico dove tutto sembrava provvisorio, i pochi negozi senza vetrine, le serrande di un mercato spaventoso, l’edicola, una chiesa grigia e squadrata in cemento armato, dove i cani randagi scorrazzavano in un parcheggio per macchine in disuso, e dove gli anziani passeggiavano in cerca di ombra tra le panchine sfondate di un minuscolo parco tappezzato di escrementi e di preservativi. La strada fiancheggiava il perimetro degli studi cinematografici di Cinecittà. Oltre il recinto si intravedeva il rovescio di antiche scenografie di film. La parte di mondo in cui ero finito, in un certo senso, era il culo dei sogni.
L’edificio che ospitava il dipartimento era un labirinto di tre piani con un centinaio di stanze in cui lavoravano quattrocento dipendenti pubblici più una sessantina di impiegati della nostra società, con decine di corridoi dall’aspetto sinistro, lunghe fughe di pavimenti in lineoleum, con una sequenza di porte tutte uguali su cui comparivano vecchie targhe a parete incise con nomi e cognomi preceduti dai titoli di dottore, dirigente, direttore. Le stanze erano cubi surriscaldati d’estate e gelidi d’inverno, arredati con scrivanie e armadi di gusto sovietico che gli impiegati cercavano vanamente di ingentilire con le foto dei figli.
I tre piani erano collegati da due rampe di scale illuminate da una luce al neon color liquido seminale. All’ultimo piano c’era un pianerottolo con una porta che dava sul terrazzo, la porta era sbarrata e il pianerottolo veniva usato dai dipendenti per fumare senza essere visti e senza dover uscire all’aperto nelle fredde giornate invernali.
Il mio ufficio si trovava al primo piano, accanto a un distributore automatico di snack, caffè e acqua minerale. Sul soffitto del corridoio c’era un grande buco. Mesi prima c’era stato un principio d’incendio. Ora, al posto del soffitto, c’era un’enorme striscia nera, una superficie granulosa con i segni lucidi della combustione. Era quasi bello a vedersi, sembrava un cretto di Burri.
Tutto ciò che vedevo dalla finestra dell’ufficio era un viale a due corsie sovrastato da una collina su cui spiccava una grande costruzione bianca e oblunga. Mi spiegarono che quella costruzione era la casa del Grande Fratello. Qualcuno provò a dirmi di più, che quell’anno la gara era stata vinta da un tale che da ragazzino era stato sequestrato dall’anonima sarda, che in quell’edizione la casa era stata suddivisa in due, da una parte i nababbi, e dall’altra i tapini, e altre cose interessanti. Mi dissero che fino a qualche mese prima, ogni giorno, a pochi metri dall’ufficio, si ammassavano comitive di adolescenti il cui unico pensiero era escogitare un modo per recapitare messaggi d’amore ai concorrenti. Durante le ore di lavoro c’era un’impiegata a cui capitava spesso di astrarsi mentre guardava la casa, sospirava e la contemplava con la stessa feroce malinconia con cui Jay Gatsby fissa la luce verde all’estremità del molo di Daisy ne Il grande Gatsby di Fitzgerald. C’era qualcosa di struggente in quel desiderio irrealizzato e irrealizzabile, in quella distanza.
Il dipartimento si occupava di una quantità variabile di cose suddivise per servizi. Ciascun servizio era guidato da un dirigente di nomina politica o concorsuale (il più delle volte politica), gli uffici operativi a loro volta erano diretti da funzionari titolari di posizione organizzativa. È pressoché impossibile restituire un’idea dell’esorbitante quantità di lavoro inutile che si svolgeva in ciascun ufficio operativo. Gli uffici erano una cinquantina, ognuno con il proprio organigramma, la propria gerarchia, il proprio metodo di macelleria mentale.
Nei primi tempi ero determinato a imparare la mia nuova professione, ad approfondirne gli aspetti studiando fuori dall’orario di lavoro. Chiedevo in continuazione delle bibliografie sul tema della comunicazione negli enti pubblici, andavo in libreria e compravo mucchi di manuali, leggevo di pomeriggio, a casa, nel freddo della mia camera. Dopo anni in cui non avevo fatto altro che ponderare sul fallimento della mia vita professionale, intravedevo per la prima volta la possibilità di avere un lavoro rispettabile, solido, uno di quei mestieri che si possono spiegare alle zie senza vederle storcere il naso. Mi svegliavo la mattina con una buona dose di ottimismo ed era per me una condizione straordinaria, uscivo con la borsa a tracolla e mi sentivo parte del mondo sano, di quella fetta di umanità produttiva che contribuisce con la sua attività al progresso della specie. Non dovevo più rinunciare a tutto per mancanza di soldi, non mi sentivo più pigro e snervato, con la testa frantumata dai pensieri tetri, sentivo che alla venerabile età di trentatré anni ero diventato finalmente adulto.
Il mio primo contratto fu un contratto a termine. Tuttavia sentivo che se avessi lavorato bene, se mi fossi ritagliato uno spazio, se avessi fatto valere l’intelligenza, lo spirito di iniziativa, la buona volontà, la riconferma non sarebbe mancata. I miei nuovi colleghi mi presero subito a ben volere, ero gentile con tutti, mi prodigavo ad aiutarli nel loro lavoro, non avendo per me ancora una posizione chiara né degli incarichi specifici da ricoprire. Mi davo da fare come potevo. E quando veniva l’ora di tornare a casa, uscivo dal dipartimento con il vecchio senso di fierezza che doveva animare lo spirito dei minatori italiani in Belgio negli anni della ricostruzione.
Tuttavia, passato il fervore dei primi giorni, imparai che in posti come quello ogni storia professionale viene azzerata, che non ero più niente di ciò che ero stato nelle vite precedenti. Le mie esperienze lavorative fino a quel momento si erano svolte tutte in contesti privati, pensavo che le competenze e il talento fossero considerate delle virtù. Ma ricordo che all’inizio di quella mia nuova vita nessuno mi chiese mai che studi avessi fatto, che lavori avessi svolto, di che mi occupassi nel tempo libero. Mi sforzavo di attaccare bottone con i colleghi d’ufficio raccontando di me e delle mie aspirazioni, ma loro, pur mostrandosi sempre gentili, sembravano più che disinteressati, davano per scontato che nessuna delle mie qualità potesse essere utile, e non perché non avessi qualità utili, ma perché il tipo di lavoro che si svolgeva in quegli uffici non prevedeva che un dipendente avesse delle qualità.
Si chiamava Ufficio Comunicazione Dipartimentale, ma il lavoro aveva a che fare solo marginalmente con la comunicazione. La responsabile, una donna acuta e volenterosa, era in realtà l’unica in grado di scrivere una mail in un italiano che non fosse affetto dal morbo del burocratichese e che non facesse largo uso di participi, gerundi e connettivi aulici. Questo suo talento veniva utilizzato per le comunicazioni interdipartimentali, ossia per scrivere, appunto, mail. Al massimo per fare il lavoro di correzione di bozze su tristi depliant informativi. La prima volta che mi chiese di redigere una mail pretese di visionare il testo. Al termine della lettura mi disse che, tutto sommato, a scrivere me la cavavo, e si meravigliò del fatto che di fronte a quel giudizio non saltassi sul tavolo come una specie di scimmia euforica.
In principio non riuscivo a capire perché fossi l’unico che tentava di raccontare qualcosa di sé. Mi chiedevo se, lontano dal posto di lavoro, i miei colleghi fossero in realtà persone dal carattere stimolante, con delle velleità e degli interessi, o se in effetti la selezione dei dipendenti prevedesse che a lavorare in posti come quello finissero solo individui senza temperamento, e che in sostanza io fossi una specie di eccezione, un errore di sistema, un ingranaggio fallato.
Eppure, per molti mesi, non mi rassegnai. Continuai a studiare i miei manuali, sicuro che in un modo o in un altro avrei potuto far carriera, perfino lì, dove le carriere si sfinivano in laboriosi pour parler. Ero convinto di certe idee sopraffine, cose come «un sistema si cambia dall’interno» o «bisogna che ognuno faccia la propria parte prima che il tutto prenda una nuova direzione», e cercavo instancabilmente di avere un atteggiamento propositivo. Mi sforzavo di introdurre modifiche in polverosi processi lavorativi che si replicavano immutati da decenni, ma mi scontravo ogni giorno con una visione del mondo del lavoro preistorica e con le occhiate sinistre di colleghi che non erano disposti a modificare di una virgola i propri ritmi e le proprie abitudini.
Ascoltavo anche le lamentele di dipendenti di lungo corso che reclamavano per delle minuzie, erano sempre pronti a spendersi per delle piccole polemiche, questioni legate all’uso della pausa pranzo o contrasti marginali con altri dipendenti. Guardavano la pagliuzza e non si accorgevano della trave.
Feci presto conoscenza con gli impiegati più in vista, quelli che avevano incarichi sindacali, o quelli che avevano buone relazioni con la dirigenza della mia società. In questo modo riuscii presto a comprendere il funzionamento della struttura, i diversi fattori che concorrevano alla disciplina dei rapporti tra la mia società e l’ente di riferimento, le gerarchie, i linguaggi, i codici comportamentali. Mi accorsi che la maggior parte del tempo lavorativo veniva spesa per districarsi in questo genere di cose, nel fare piccola politica di se stessi, poiché le attività d’ufficio erano autentiche insensatezze amministrative che non richiedevano nessun impegno di tipo intellettuale. Per farla breve, non ero disposto per nulla al mondo ad affogare di nuovo nel torpore dell’inoperosità, eppure, senza accorgermene, stavo entrando in un altro letargo: un letargo retribuito.
Nel corso della mia vita da impiegato ho conosciuto molte forme di abbrutimento, ho visto persone arrendersi a un degrado fisico e mentale paralizzante. Ricordo un tizio che incontravo ogni giorno nell’ufficio del personale, non avevo ancora il badge per le timbrature elettroniche e dovevo firmare l’entrata e l’uscita su un registro presenze. Era un tipo sulla sessantina che se ne stava seduto accanto alla finestra. Sulla scrivania teneva una copia del Corriere dello Sport e un pacchetto di Camel. Le uniche due cose che sembrava in grado di fare erano fumare e leggere il giornale. Ogni mattina aprivo la porta e dicevo: «Buongiorno», e quell’uomo rimaneva immobile senza rispondere. Scrivevo il mio nome sul foglio-firme e salutavo, e lui continuava a tacere, con la sigaretta in bocca e gli occhi bassi.
La scena si ripeteva ogni giorno. La posa dell’impiegato non cambiava mai, neppure la sigaretta, e neppure i miei saluti non ricambiati. Certe mattine spalancavo la porta in modo brusco, entravo senza salutare, quasi sperando che la cosa suscitasse in lui una reazione. Ma quell’uomo rimaneva assorto nel suo mondo di pensieri caliginosi. Non avevo idea di come trascorresse le giornate, non lo si incontrava nei corridoi del dipartimento, né lo si vedeva in qualsiasi altro luogo diverso da quella stanza. Dicevano che fosse prossimo alla pensione e che ormai nessun dirigente pretendesse da lui niente più che un atto di presenza.
Un giorno, mentre tentavo di mettere la mia solita firma, mi accorsi che la penna non funzionava. Così provai a chiedergli se poteva prestarmene una delle sue. Non rispose, però mosse appena il viso indicando il portapenne sulla scrivania. Così mi avvicinai e mentre sfilavo una penna dal suo portapenne, gli occhi mi caddero sul titolo principale del giornale che teneva davanti a sé.
Qualche giorno più tardi successe di nuovo la stessa cosa, e di nuovo gli chiesi se poteva prestarmi una penna. Lui disse ancora di sì. Allora notai che il titolo del giornale era lo stesso della volta precedente.
Per molte settimane, entrando nell’ufficio del personale per firmare sul registro delle presenze, davo un’occhiata a quel giornale. Era sempre la stessa copia, da chissà quanto tempo. Quell’uomo non leggeva, fissava il nulla. E io ogni volta lo guardavo con un’avidità che mi accendeva gli occhi, come se mi sentissi attratto da una visione mortale, di quelle che fanno perdere il respiro.
Dopo qualche tempo arrivò il mio badge, e smisi di far visita ogni giorno a quel vecchio rudere dimenticato. Non lo vidi più. Qualche volta mi sono chiesto se esistesse veramente o se fosse un’allucinazione premonitoria, la morte in carne e ossa, la visione di cosa accade quando le persone smettono di fingere di essere qualcosa di diverso da ciò che sono nella realtà. In quell’uomo non vidi mai una traccia di vita, come nel corso del tempo non ne avrei viste in tanti altri, e molte volte mi sono chiesto se in quel posto la vita precedesse la morte psichica o se la morte psichica fosse un requisito necessario per sopravvivere.
La verità è che sono passati quasi otto anni da quando ho iniziato. E da allora mi sono guadagnato per due volte la riconferma, finché non mi hanno assunto a tempo indeterminato. Otto anni durante i quali ho cambiato più volte compiti e uffici di assegnazione. Mi s no occupato delle cose più disparate, ovvero non mi sono mai occupato di niente di importante. Quella spinta che avevo all’inizio si è affievolita, e non perché abbia conseguito il risultato di essermi accaparrato un posto di lavoro sicuro , almeno credo. Quella spinta si è affievolita perché sono diventato parte di un meccanismo beckettiano, in altre parole perché mi sono arreso a essere un lavoratore infruttuoso che svolge un mestiere non necessario alla collettività. E come me, milioni di lavoratori pubblici e privati in tutto il mondo occidentale che vengono stipendiati per servizi di cui nessuno sente la necessità, anziché essere utilizzati in compiti nei quali potrebbero esprimere al meglio i propri talenti.
Negli anni ho stretto amicizia con colleghi battaglieri che non si sono mai rassegnati a questo enorme vuoto, lavoratori preparati e dirigenti illuminati. Tuttavia, neppure il più agguerrito tra loro è mai riuscito a scalfire la corazza di conservatorismo, di sterilità, che ricopre questo genere di organizzazioni. Ciò significa che per una parte della società moderna, l’idea sacrosanta che ogni essere umano abbia diritto a un lavoro è stata orrendamente deformata. Mi capita spesso di parlare con impiegati per i quali il proprio lavoro non è più un valore morale ed egualitario (se lo fosse avrebbero a cuore l’utilità del proprio lavoro), ma è un diritto acquisito, un diritto a cui è concesso di non avere alcuna utilità pubblica. In altre parole, questi impiegati sono consapevoli che, nella migliore delle ipotesi, spenderanno quarant’anni della propria vita in una struttura paranoica, ma ritengono che, a fronte di uno stipendio certo, la morte psichica e morale che ne deriverà sia un sacrificio tutto sommato accettabile.
Questo è il risultato di un secolo di etica del capitalismo in cui cose come lo spirito di impresa, la garanzia del lavoro e la felicità personale non sono direttamente conseguenti, ma, anzi, sono spesso l’una d’intralcio per la realizzazione dell’altra. Così oggi, in certi momenti, scosso da barlumi di consapevolezza profonda, penso che da qui a cento anni, riguardando a questo tempo, diranno che eravamo quelli che spendevano le proprie esistenze in professioni vane, mestieri di cui nessuno capiva l’effettiva utilità. Diranno che eravamo sottomessi a una forma di oppressione di cui non avevamo coscienza, ma della quale, anzi, ci rallegravamo. E non so se capiranno che tutto questo accadeva perché nel nostro sistema dominante l’alternativa all’estinzione mentale era un’altra estinzione, ben più feroce: era l’estromissione fisica dalla società degli uomini, era il non-lavoro.
Chissà se, da qui a cento anni, pensando al ricatto che pesa sulle nostre vite, proveranno per noi più incredulità o più compassione.