Ho trovato molto apprezzabile il contributo di Sbilanciamoci!, Workers Act, sia per la critica al cosiddetto Jobs Act del Governo Renzi (contenuto nella prima parte) sia per lo sforzo di produrre proposte per l’occupazione e per la difesa dei diritti dei lavoratori cui è dedicata la seconda parte. Pur ritenendo molto importante questo sforzo e […]
Ho trovato molto apprezzabile il contributo di Sbilanciamoci!, Workers Act, sia per la critica al cosiddetto Jobs Act del Governo Renzi (contenuto nella prima parte) sia per lo sforzo di produrre proposte per l’occupazione e per la difesa dei diritti dei lavoratori cui è dedicata la seconda parte. Pur ritenendo molto importante questo sforzo e che sia utile fornire commenti, critiche e integrazioni per questa seconda parte del lavoro di Sbilanciamoci!, il mio intervento si riferirà alla prima: alla critica del “Jobs act” di Renzi.
Ciò non perché non sia d’accordo con l’analisi e le proposte. Anzi mi pare che la critica centri bene i principali punti della questione e trovo che sia ben argomentata. Intervengo perciò solo per sottolineare ulteriormente qualche punto e per commentare qualche aspetto che nel volumetto non è forse stato approfondito a sufficienza. Si tratta innanzitutto del contesto politico e sociale nel quale il Jobs Act – questa “Rivoluzione Copernicana” come l’ha definita il suo autore – è scaturito. Si tratta poi del perché questo piano di intervento nel mercato del lavoro sia stato chiamato dal suo proponente, prima ancora di renderne noti i contenuti, con il nome (in inglese) di una legge americana: il Jobs Act di Obama. Premetto che a mio avviso è non tanto – o comunque non solo – una questione di provincialismo, di mostrare che si sa parlare in ‘stranierese’. Probabilmente c’è anche questo ma non è l’aspetto principale. Anticipando il punto in questione si può ipotizzare che in questa scelta ci sia anche un tentativo di legittimazione: “anche noi sappiamo fare come si fa in America”. Ma vedremo che c’è ancora dell’altro, in particolare i vantaggi connessi alla mancanza di chiarezza, all’allusività, e in ultima analisi alla confusione. Diversamente non si riesce a capire perché a una legge italiana venga dato il nome di un provvedimento americano che parla sostanzialmente d’altro e che non mostra neanche elementi comuni sul piano dell’orientamento in materia di politica economica.
A scopo di chiarimento condurrò una breve analisi comparativa dei due provvedimenti – degli elementi comuni (pochi) e delle differenze (molte) – allo scopo di introdurre il punto conclusivo dell’intervento: quello che riguarda i processi di produzione delle informazioni (e della disinformazione), le retoriche e lo stile comunicativo. Tutto ciò partendo dalla osservazione che il processo di produzione delle informazioni e le pratiche di convincimento e autoconvincimento non riguardino solo il capo del governo, o il suo staff in questo ambito, ma anche i mezzi di comunicazione di massa e i soggetti capaci di influenzare l’opinione pubblica.
Cominciamo dal primo punto (il contesto). Il governo Renzi, segue il governo Letta che a sua volta seguiva il governo Monti. Non ci sono state grandi differenze nell’orientamento di politica economica e di politica del lavoro tra i tre governi. Si può dire che – come per altro su tutto il resto – il governo Letta sia stato meno aggressivo in questo ambito rispetto a quello precedente e a quello successivo. Ma la direzione è stata chiara e univoca. E se la stessa operazione del Jobs Act da un certo punto di vista rappresenta un balzo in avanti nell’attacco ai diritti e alle prerogative dei lavoratori, e in particolare della classe operaia, dall’altra rappresenta solo una iniziativa un po’ più drastica all’interno di una linea generale fissata dal governo Monti e non priva di qualche coerente antecedente. Si tratta di una linea chiara: essa non prevede alcuno spazio per politiche espansive, impone che la spesa pubblica vada contratta, esclude che il sindacato vada ascoltato e tanto meno preso in considerazione: si tratta di un elemento di disturbo e basta.
C’era una volta un Piano per il lavoro della Cgil
In un quadro di totale isolamento – con il Partito Democratico coinvolto direttamente o indirettamente nel governo di coalizione di Monti – la Cgil lancia qualche anno addietro il suo ambizioso ‘Piano per il lavoro‘. Si trattava di una proposta di interventi in materia di politica economica espansiva con indicazione di investimenti in diversi settori che avrebbe implicato un indirizzo della spesa e in generale della politica economica incompatibile con il governo del quale tuttavia il Pd, il partito più vicino alla (o meno lontano dalla) Cgil, era magna pars. Esso non voleva essere un semplice sforzo analitico a dimostrazione che esistono alternative possibili economicamente nell’indirizzo della spesa pubblica come il lavoro di Sbilanciamoci. Nel caso della Cgil, del più importante sindacato dei lavoratori, non si poteva trattare di una operazione del genere: doveva e voleva essere una proposta al governo, un progetto operativo per lo sviluppo economico e occupazionale quale contenuto di una strategia e di azioni rivendicative. Ma per far questo la Cgil, avrebbe dovuto attrezzarsi, decidere il tipo e i contenuti specifici delle rivendicazioni, valutare su quali gambe avrebbe dovuto marciare la proposta, quali mobilitazioni avrebbe dovuto mettere in campo, di che portata, di che natura e con chi. A queste cose invece – a me pare – non si pensò molto. Questa operazione mi sembra ora più una versione farsesca che una versione aggiornata della gloriosa esperienza storica del Piano del Lavoro della Cgil di Di Vittorio. Come si sa, la risposta (o la mancata risposta) del governo Monti sembrò riecheggiare quella parimenti arrogante data da De Gasperi una sessantina di anni prima alla Cgil di Di Vittorio “I piani non mancano, mancano i quattrini!”. In questo secondo caso comunque il ‘Piano’ fu semplicemente ignorato. Eppure, bene o male, delle proposte da prendere in considerazione erano presenti in questo progetto, dal nome inopportunamente pomposo, ormai dimenticato. A quattro anni di distanza dal suo lancio nessuno se ne ricorda più, a parte il cortese riferimento che ne fa il volume di Sbilanciamoci! I tempi dell’epoca neo-liberista sono velocissimi.
Passata la serena stagione del governo Letta arriva il governo di Renzi e Alfano. Ed è proprio quest’ultimo ad anticipare a modo suo la linea del finto jobs act ponendo come punto caratterizzante del nuovo governo la soppressione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Ma Renzi fa di peggio: mentre ancora la Cgil – così come il Pd (o almeno la parte ancora di tenue origine social-comunista) – è lungi dall’archiviare il ‘piano del lavoro’, il segretario del partito e capo del governo lancia una alternativa radicale. Fa conoscere l’esistenza di una proposta di legge dal nome appunto di Jobs act che, detto in italiano significa legge sul (o per il ) lavoro – o, meglio, sui (o per i) lavori o, meglio ancora, sui (o per i) posti di lavoro. Ma dalle dichiarazioni che accompagnarono questa iniziativa di legge italiana (se riesco a tradurre bene la parola act) si capisce subito che vuole essere un nuovo piano per l’occupazione che però non ha niente a che vedere con quello della Cgil. Nei suoi discorsi Renzi promette grandi sviluppi dell’occupazione ma è subito chiaro che la sostanza del ‘piano’ consiste in un nuovo quadro delle relazioni sindacali.
Ciò che impressiona – soprattutto osservando il coro di entusiasti suggeritori del Jobs act nostrano– è che per la sua natura esso esprime una netta svolta neo-liberista, un rovesciamento rispetto all’approccio del Piano della Cgil. L’obiettivo non è né solo l’articolo 18 né solo lo statuto dei lavoratori, ma l’intera tradizione del diritto del lavoro italiano a partire dalla seconda guerra mondiale. I contenuti del Jobs Act di Renzi sono ben illustrati nel libretto di Sbilanciamoci! e pertanto non è il caso di entrarci nel merito.
Mantenendoci ancora nel tema del contesto è bene sottolineare la grave situazione del mercato del lavoro e dell’occupazione in Italia. Si tratta di problemi strutturali, problemi di povertà e crisi dell’apparato produttivo, problemi connessi al dualismo territoriale nel nostro paese: problemi dovuti alla carenza di investimenti pubblici e privati. Insomma problemi rispetto ai quali ulteriori iniezioni di flessibilità quali sono quelli proposti e magnificati da Renzi e dai suoi mentori possono fare ben poco. Con una disoccupazione vicina al 13%, con una disoccupazione meridionale superiore al 20%, con una disoccupazione giovanile meridionale (15-24 anni ) pari ai due terzi delle forze di lavoro nella stessa fascia di età, la proposta del piano di Renzi e i dei suoi, tutta basata sulla flessibilità, sembra venire da un altro mondo. E per quel che riguarda i contributi, lauti, alle imprese che assumeranno va ricordato che le imprese capaci di usufruirne stanno proprio nelle aree dove meno grave è la disoccupazione, cioè fuori dal Mezzogiorno. E’ vero che questo incentivo in linea teorica potrebbe anche produrre qualche occupato stabile in più nel breve periodo (magari non nel Mezzogiorno) nella fase iniziale. E ciò servirà sicuramente per l’opera di propaganda, che è già in corso. Poi l’effetto finirà in mancanza di altri stimoli.
Obama non c’entra nulla
Passiamo ora a un confronto tra il jobs act e il jobs act finto di Renzi. Una breve analisi comparativa dei due provvedimenti mostra differenze enormi. In sostanza trattano materie solo in parte analoghe e comunque con approcci differenti. La legge italiana ha come punto centrale tematiche di relazioni sindacali in particolare i criteri di riduzione delle misure di protezione all’impiego: tematiche che nel jobs act vero non sono proprio trattate. Al contrario – e questo è il punto principale – il jobs act vero si è basa anche su massicci investimenti pubblici che vanno dal finanziamento del sistema educativo a lavori pubblici: tematiche che sono assolutamente ignorate nella legge italiana che punta tutto sulla flessibilità sulla questione della ‘occupabilità’ nell’assunto di un basso capitale umano dei giovani disoccupati italiani, quelli che solitamente e malamente vengono definiti NEET. Insomma, al costo di ripeterci vale la pena sottolineare che, al contrario della linea di Renzi, il jobs act vero, quello americano, è basato su investimenti e quindi di un azione diretta sulla domanda di lavoro per far crescere così realisticamente l’occupazione al contrario di quello italiano. C’è da dire che in esso non mancano iniziative che possono farsi rientrare delle politiche attive del lavoro o anche delle politiche passive come interventi per i disoccupati di lungo periodo e gruppi disagiati. Ma la prima area di intervento è quella di maggior rilievo. Non mancano neppure sgravi fiscali per le imprese che assumono e questa può essere considerata una analogia con il bonus triennale dato alle imprese italiane. Naturalmente la portata degli incentivi in America è più che proporzionale a quella italiana. Ma quello che conta è la spesa complessiva davvero enorme, oltre trecento miliardi di dollari.
È ovvio che un intervento che riguarda anche l’offerta ma soprattutto la domanda come quello americano costa molto di più. E infatti il jobs act di Obama si basa su un elemento realistico e ovvio per cui per fare aumentare l’occupazione bisogna fare investimenti. Il finto jobs act di Renzi rientra invece all’interno del sogno tradizionale per cui riducendo le protezioni dei lavoratori occupati stabili e prolungando all’infinito la situazione di apprendisti e occupati non standard, l’occupazione aumenterà automaticamente. Per inciso vale la pena di ricordare che il decreto Poletti che prolunga all’infinito i nuovi contratti non standard è divenuto parte integrante del finto jobs act italiano.
Per entrare più in dettaglio delle differenze e a scopo di documentazione si può scaricare da internet un qualunque documento illustrativo prodotto dall’amministrazione o dal partito democratico per vedere di che si tratta. Le misure del jobs Act di Obama che riguardano la domanda sono comprese sotto il titolo generale di “far tornare sui posti di lavoro i lavoratori ricostruendo e modernizzando l’America”. Come esempio si può prendere la voce, lautamente finanziata, “Investimenti urgenti per strade, ferrovie e aeroporti” o quella relativa alla “Creazione di una banca nazionale per le infrastrutture” o quella avente l’obiettivo di “Evitare licenziamenti di insegnanti modernizzando oltre 35 mila scuole pubbliche”. Si noti il riferimento alle “scuole pubbliche” e non semplicemente alle scuole.
Al contrario nella mente dei creatori della ‘copia’ nazionale del jobs act non c’è alcuna intenzione di sprecare danaro in investimenti. Il disciplinamento dei lavoratori con le nuove forme di controllo e la riduzione della tutela fondamentale con l’eliminazione dell’articolo 18, dovrebbero rinnovare la fiducia degli imprenditori e stimolare così gli investimenti.
Naturalmente non manca una dose di retorica neanche nel jobs act vero, quello di Obama. Così, in coerenza con l’ideologia dominante si sottolinea la riduzione del 50% delle tasse sul lavoro in base al principio di mettere più soldi nelle tasche di ogni lavoratore americano e di ogni famiglia. La retorica e la fraseologia su questo punto sono molto simili a quelle usate da Berlusconi e da Renzi: la retorica dei soldi in tasca ai cittadini, l’unico diritto che merita di essere rispettato. Infine mentre la retorica del conflitto intergenerazionale accompagna la presentazione del finto Jobs act italiano, c’è un’altra retorica che caratterizza il Jobs act americano che è la retorica patriottica espresso da misure a vantaggio dei reduci dal titolo “Returning heroes” .
D’altronde man mano che in qualche modo i contenuti del Jobs act nostrano risultavano più chiari, il riferimento al Jobs act di Obama veniva dimenticato e rimaneva solo il nome.
Le dichiarazioni ufficiali di Renzi e le azioni di propaganda hanno in genere obiettivi ed interlocutori diversi. Così a volte esse sembrano rivolte alla Confindustria e in generale ai datori di lavoro (sempre in maniera benevola) a volte esse sono rivolte al sindacato in maniera spesso insultante e con un intento evidente di delegittimazione. A volte infine Renzi parla alla sinistra spiegando cosa vuol dire ora essere di sinistra. Basta prendere una breve citazione: “Qual’è l’identità della sinistra in Italia?….essa consiste nel dare più diritti ai giovani, di dare possibilità ad una nuova generazione. Noi avevamo in Italia un apartheid del lavoro. Il Jobs act è la cosa più di sinistra che io abbia mai fatto”. Dove siano poi questi maggiori diritti ai giovani è difficile da immaginarlo. Eppure su questo si continua ad insistere. Ed è difficile dire se affermazioni di questo genere e l’intero quadro della propaganda di Renzi si basino sull’ideologia o su un conscio intento di disinformazione o se c’è qualcos’altro ancora. Probabilmente c’è un po’ di tutto.
Confusione, propaganda e ideologia
Passiamo con ciò all’ultimo punto, quello relativo all’ideologia e alla propaganda. La presentazione delle iniziative del governo Renzi è sempre accompagnata nei media da un grande battage pubblicitario che ne sottolinea la novità e al contempo la capacità di risolvere problemi strutturali dell’economia e della società italiana. Sempre nei discorsi c’è la promessa, anzi la garanzia, che i risultati dell’iniziativa saranno strepitosi, meravigliosi. Non si parla dei contenuti specifici delle misure ma degli effetti che esse avranno per la vita economica e sociale del paese. Allo scopo di rendere più confusa la situazione – o magari per semplice provincialismo – nel discorso ufficiale si abbonda di termini inglesi generalmente ricavati dal lessico americano, come abbiamo già notato in premessa. Non è una pratica originale questa dell’uso improprio di termini in inglese. Ormai siamo da tempo abituati e non a tutti viene il dubbio che ci sia il trucco: pensiamo al caso della cosiddetta ‘spending review’ e gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ma questo stile di comunicazione istituzionale nel caso del finto Jobs act raggiunge la sua massima espressione.
Preparata da studiosi di fede governativa – ancor prima che fossero resi pubblici, e probabilmente prima ancora che fossero decisi, i contenuti specifici – questa legge (questo ‘act’ per dirla con loro) è stata pubblicizzata come la misura che avrebbe risolto in senso positivo il conflitto generazionale, avrebbe eliminato la contraddizione tra ‘insiders’ e ‘outsiders’ – una volta i primi si chiamavano ‘garantiti’ – avrebbe determinato un superamento della precarietà e una riduzione della disoccupazione giovanile soprattutto nel Mezzogiorno. Sul modo in cui si sarebbero raggiunti gli obiettivi si diceva ben poco. E soprattutto su quest’ultimo punto avevano ben poco da dire.
Per tutta una fase si è discusso del provvedimento senza che ne esistesse una bozza ma c’era solo una vaga, per altro orale, indicazione degli obiettivi. Si discuteva senza un testo di riferimento. Anche coloro che criticavano il progetto dovevano basarsi anch’essi sul sentito dire, sulla tradizione orale. Di certo gli esperti sapevano che il cuore del provvedimento sarebbe consistito in misure riguardanti le relazioni industriali le quali avrebbero inciso sulla legislazione italiana riducendo il presunto eccesso di garanzia dei presunti ‘insiders’ (l’obiettivo era la classe operaia ‘centrale’, quella da anni sotto attacco). E autori di orientamento neo-liberista pubblicizzavano complesse soluzioni (solo in parte poi assorbite nella legge) che avrebbero garantito la quadratura del cerchio. Si trattava – come ben illustrato nel libro di Sbilanciamoci! – del famoso contratto a tutele crescenti. A questo poi si aggiungevano degli incentivi alle imprese per le nuove assunzioni consistenti in una vantaggiosa forma di contributo fiscale. A operazione compiuta, e mentre i decreti attuativi mostrano la ferocia dell’attacco ai diritti sanciti dallo statuto dei lavoratori (ultimamente sul piano della riservatezza personale), si può fare un brevissimo bilancio del rapporto tra proposte originarie – non le promesse che sono ben altro – e testo della legge. Dal contratto a tutele crescenti è ormai esclusa una larga fascia di quelli cui doveva essere destinato: i giovani da salvare dal precariato. E per quel che riguarda le tutele, se vogliamo considerare esagerata l’affermazione di Sbilanciamoci! secondo la quale esse sono ‘calanti’ anziché crescenti, non si può negare il carattere scandaloso delle norme definitive sui licenziamenti senza alcuna giusta causa con la libertà incondizionata di sbattere via il dipendente al costo di un piccolo indennizzo. Circa poi l’incentivo alle aziende, come accennato, esso è importante per la propaganda e per far vedere che l’occupazione aumenta grazie al Jobs act. Purtroppo questo effetto è destinato – come mostrano esperienze passate – a durare poco e vedremo che nel Mezzogiorno le cose, anche in caso di miglioramento della situazione congiunturale a livello nazionale, cambieranno di poco. I giovani, in particolare i neet del Mezzogiorno – dei quali tanto si parla allo scopo di aizzare il conflitto generazionale – non avranno alcun beneficio dalla riduzione dei diritti degli occupati stabili. E pochi ne avranno anche dai sussidi alle imprese. Ci vorrebbe ben altro.
Tornando alla questione di prima sulla ideologia e sulle forme di comunicazione è evidente come le esternazioni di Renzi in materia si basino su informazioni generalmente distorte. Con la sua usuale irruenza il Primo ministro e autore del finto Jobs act promette l’improbabile e l’impossibile senza mettere mai le carte in tavola. Non ci è dato di sapere quanto egli stesso creda alle sue mirabolanti promesse ma la scarsa attendibilità è chiara e abbiamo tentato di evidenziarlo.
Nel complessivo processo comunicativo ci sono anche altri elementi, altri modelli di informazione ma anche altri convincimenti e visioni del mondo. Innanzitutto c’è una posizione assolutamente dominante, più sincera per così dire, che è dominata dall’ideologia. L’intero apparato neo-liberista che è alla base dell’operazione del Jobs act nostrano – a parte qualche piccola evidente bugia detta “perché si deve anche campare” – è basato su presupposti ideologici che poi sono quelli dell’economia neo-classica tradizionale. Tra questi uno è rappresentato dal mito della flessibilità. Il volume di Sbilanciamoci! smonta in dettaglio con argomentazioni e documentazione empirica le tesi dei vantaggi della flessibilità (nelle sue varie dimensioni: salariale, numerica, etc). Eppure non ci si ferma neanche di fronte all’evidenza. E i mentori della politica renziana non sono affatto isolati in ciò. L’evidenza in materia di flessibilità e dei suoi fallimenti non frena neanche i responsabili delle organizzazioni internazionali. Renzi e associati sono in buona compagnia.
C’è poi un’ulteriore forma di convincimento e autoconvincimento che riguarda probabilmente altri soggetti e non le teste d’uovo o i – riccamente stipendiati – consulenti del governo, insomma i produttori del finto Jobs act. Si tratta di una tendenza a vedere le cose come si desidera che esse siano: “il wishful thinking” come direbbero gli inglesi e gli economisti alla moda. Questo atteggiamento lo si registra tra i propugnatori del Jobs act per fede renziana o per odio nei confronti del sindacato. E lo si registra anche nella grande stampa. Esso infine riguarda anche qualche ministro distratto, come nel caso dei numeri sbagliati del ministro Poletti che, preso dall’entusiasmo, dimenticò l’esistenza della sommatoria e comunicò i grandiosi (inesistenti) risultati delle iniziative governative sul piano dell’occupazione.
Per fortuna pare che a tutto ciò non credano invece una parte dei diretti interessati. Forse neanche le imprese che sanno che i problemi dello sviluppo e i rapporti con i lavoratori non si regolano a forza di cancellare i diritti sulla carta. Ma soprattutto non ci credono i giovani e i lavoratori. Renzi avrà ragione a dire che il Jobs act è la cosa più a sinistra che ha fatto (figuriamoci il resto). Ma la gente vuol vedere i risultati effettivi. Vuol vedere davvero lavoro e lavoro decente. E da questo punto di vista la prospettiva è nera.