A quale logica resalmente risponde il progetto di riforma costituzionale dello Stato a cui sta lavorando il governo di Matteo Renzi? Un’analisi del disegno di legge
La concentrazione del dibattito parlamentare sul problema dell’elezione indiretta del senato nel ddl costituzionale, soprattutto in questo momento in cui un’eterogenea opposizione, mossa da principi inconciliabili, minaccia di bloccarne la strada, distoglie l’attenzione da alcuni dei dispositivi specifici che il governo ha messo al centro del suo progetto di trasformazione della Repubblica, come se essi derivassero by default in un’inesorabile logica istituzionale dalla scelta del bicameralismo asimmetrico, con un senato che non vota la fiducia. In particolare è rimasto in secondo piano nelle analisi critiche del progetto governativo un aspetto della sua deriva verso un regime costituzionale privo di efficace bilanciamento tra poteri del governo sui processi legislativi e poteri e funzioni degli organi legislativi. Da un lato, il progetto contiene uno svuotamento dei poteri legislativi delle regioni; ma, dall’altro, attribuisce al futuro senato funzioni (fondamentalmente leggi costituzionali e revisioni della costituzione, nomine istituzionali, e un ridotto potere di interferenza con la legislazione della prima Camera) coerenti solo con un “senato delle autonomie” che rappresenti effettivamente un’istituzione regionale con rilevanti prerogative legislative. Né l’una né l’altra condizione sono presenti nel ddl Bisogna chiedersi perciò a quale logica esso realmente risponda.
Con la giustificazione che il concorso legislativo di parlamento e regioni in molte materie, come previsto dalla versione del Titolo V in vigore dal 2001, ha dato luogo a conflitti di attribuzione che hanno dovuto essere risolti dalla Corte costituzionale, e che la distinzione stessa per materie sarebbe difficile da fare, il concorso delle regioni viene semplicemente abolito. Però non viene riformata nelle sue caratteristiche statutarie l’istituzione stessa, nonostante che in questi anni le regioni abbiano costituito uno dei principali punti di implosione della politica italiana. C’è, all’art. 30/31 del disegno di legge (uso i due testi approvati finora rispettivamente dal Senato l’8 agosto 2014 e dalla Camera il 10 marzo 2015), il lungo elenco di tutte le materie per cui lo Stato avoca a sé la legislazione esclusiva, ma non esiste nessun simmetrico elenco di competenze legislative esclusive delle Regioni. Esiste invece un elenco di materie oggetto di legislazione regionale (mai definita esclusiva). Questo elenco in piccola parte ripete funzioni nazionali, con la limitazione all’ambito regionale, in gran parte definisce una legislazione subordinata, che assomiglia piuttosto a ciò che a livello nazionale si chiamano decreti attuativi e circolari applicative (c’è qualche vantaggio a chiamare legge le regolamentazioni comunali del traffico veicolare?) L’intero quadro di riferimento generale per quanto riguarda le infrastrutture, la tutela della salute, le politiche sociali, la sicurezza alimentare, la tutela e sicurezza del lavoro, per citare i casi più rilevanti, sono ora avocate alla competenza esclusiva dello stato. Per di più con una logica dubbia. Ad esempio, mentre le regioni possono promuovere lo sviluppo economico locale e organizzare in ambito regionale i servizi alle imprese, lo stato rivendica l’esclusiva delle “politiche attive del lavoro” (art.31, secondo capoverso, lettera o, del testo approvato dalla Camera), per poi concederle graziosamente alle provincie di Trento e Bolzano, ed eventualmente ad altre, a sua scelta. È difficile immaginare su questa base un equilibrio virtuoso delle scelte politiche tra la retorica identitaria delle eccellenze e specificità territoriali e la spinta ordoliberale alla convergenza dei mercati incardinata nella esclusiva “tutela e promozione della concorrenza” da parte dello stato. Nell’audizione del maggio 2014 davanti alla Commissione parlamentare Giandomenico Falcon, professore di Diritto amministrativo a Trento e frequentissimo difensore di fronte alla Corte costituzionale dell’attività legislativa regionale, ha sostenuto che in questi anni è andata esaurendosi la conflittualità stato/regioni, mentre si è realizzata la pratica impossibilità per le regioni di fare oggi leggi rilevanti, che siano buone o cattive, ad esempio in materia di commercio e di lavori pubblici. Dunque è un’istituzione svuotata, secondo giurisprudenza e secondo costituzione, di vere funzioni legislative, e ridotta ad organo amministrativo, che dovrebbe essere rappresentata nel nuovo senato.
Può essere rappresentata un’istituzione anziché un corpo di cittadini? Certamente sì, ma è ovvio che il rappresentante di un’istituzione ha un mandato imperativo. Non aver sciolto questo nodo, lasciando invece senza vincoli di mandato i nuovi senatori, scelti prevalentemente dai consigli regionali per componenti di partito, scopre la frode politica di questo disegno. Essa è tanto più evidente se si tiene presente l’argomento fondamentale usato dai difensori dell’elezione indiretta (in audizione soprattutto Massimo Luciani). Solo quest’ultima nella sua dimensione regionale garantirebbe un ramo del Parlamento realmente diverso dall’altro perché in esso non varrebbe la logica politica della competizione conflittuale tra partiti, ma appunto quella istituzionale della cooperazione di interessi territoriali. In questo caso, però, il modello è il Bundesrat tedesco, da tutti invocato e poi, con apparente rammarico, da tutti abbandonato: perché l’Italia non è uno stato federale. Tuttavia, anche per uno stato non federale, quindi con un ambito di competenze legislative regionali molto più ridotto, il caso tedesco è un modello per la limpidezza della sua logica. Il punto non è l’estensione non replicabile delle competenze, ma la precisione della loro definizione, l’indicazione di definiti criteri per dirimere le eventuali controversie, l’identificazione di una procedura parlamentare di composizione, tutti elementi che sono stati ancora rafforzati nella revisione costituzionale tedesca del 2006. Poiché nel Bundesrat sono rappresentati i Länder, il capo del governo regionale vi siede d’ufficio, e nomina gli altri suoi rappresentanti, che hanno vincolo di mandato. I governi regionali, però, sono eletti con legge elettorale proporzionale (molto spesso sono quindi governi di coalizione) il che garantisce una rappresentatività molto maggiore che non le manipolatorie leggi elettorali maggioritarie, a crescente tasso di astensionismo, delle nostre regioni. È quindi congruente che i Länder, i quali costituiscono il Bund (l’unione federale), e sono repubbliche parlamentari, come comunemente si autodefiniscono, siano competenti circa i mutamenti della costituzione, rispetto ai quali garantiscono il criterio della rappresentatività. Perché mai debba esserlo il futuro Senato italiano fatto di un coacervo di politici locali, nominati da istituzioni di spurio carattere presidenziale, fondamentalmente amministrative, e in ogni caso con basso grado di rappresentatività dei cittadini a ogni livello, rimane un mistero. Quello che non è misterioso è che ogni mutamento della Costituzione, e così anche le nomine istituzionali di competenza, sarebbero nella disponibilità di una Camera dei deputati eletta con un sistema elettorale esasperatamente maggioritario, e di un senato a sua volta povero sia di rilevanza, per la debolezza delle istituzioni di riferimento e del suo rapporto con esse, sia di rappresentatività per la sua selezione e composizione. Il contrasto del progetto italiano con il modello tedesco è particolarmente evidente sul problema dell’autonomia finanziaria: un elenco specifico delle imposte, tasse e tributi le cui entrate spettano ai Länder (e dei criteri di ripartizione per quelle condivise) di contro alla generica prescrizione per gli enti locali italiani i quali “stabiliscono e applicano tributi ed entrate proprie e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (artt. 32/33).
Nel presentare il suo d.d.l. al Parlamento Renzi disse che esso mirava a garantire “alle autonomie regionali e locali un virtuoso coinvolgimento nel circuito decisionale di livello nazionale”. Due rischi derivano in realtà dalla combinazione della ridotta e mal formulata competenza legislativa e finanziaria delle regioni con la composizione di un senato costituito da segmenti di ceti politici locali cooptati nel circuito decisionale di livello nazionale. Il primo è che il governo legislatore dispone di intera libertà di manovra per ridurre le tasse senza curarsi della spesa sociale che rimane non finanziata (vedi abolizione delle tasse comunali sulla casa), ma può ribaltare sulle regioni e i comuni la responsabilità politica e il costo sociale delle politiche economiche nazionali. Essi infatti non hanno nessuna fonte di finanziamento garantita sia pure per il ridotto ambito di intervento nelle politiche sociali che rimane loro, e non è più prevista nessuna partecipazione alle funzioni di “armonizzazione dei bilanci pubblici; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (artt. 30/31, lettera e): se vogliono, tassino loro, nei limiti in cui lo stato glielo consente, oppure riducano le prestazioni. Il secondo rischio, tra i tanti illiberali squilibri di potere già illustrati da molti commentatori, è che un senato di questa fatta, ossia un ente inutile, ma dotato di un potere, sia pur limitato, di interferenza nella legislazione nazionale, lungi dal costituire un contrappeso, diventi strumento impropriamente utilizzabile alla bisogna nei confronti della Camera dei deputati. In essa infatti il partito vincitore, se coeso (nel caso la preselezione dei candidati dall’alto abbia funzionato) sarà in ogni caso imbattibile; se non coeso, potrebbe trovare qualche dilazione, qualche spazio di manovra, qualche leva nell’informe Senato. Sia la scelta di lasciare istituzionalmente indefinita, e quindi oggetto di permanente trattativa politica, la capacità economica degli enti locali sia quella di lasciare improprie funzioni costituzionali e legislative al nuovo senato sono in stridente contrasto con l’ossessiva retorica di semplificazione istituzionale e rapidità decisionale con cui il governo ha venduto al paese il suo progetto.