La proposta di legare i salari alla produttività aziendale non solo è socialmente e politicamente pericolosa, ma non è sorretta da solide ragioni economiche
In una visione molto diffusa, che sembra convincere anche parti della sinistra e del sindacato, i bassi salari dipenderebbero dalla scarsa produttività del lavoro; per aumentare i primi occorrerebbe preventivamente aumentare la seconda e un modo per farlo sarebbe passare dalla contrattazione nazionale a quella locale, aumentando solo i salari dei lavoratori che aumentano la loro produttività. Secondo alcuni, il collegamento tra incrementi salariali e produttività dovrebbe spingersi fino alla formulazione di contratti individuali.
Questa visione è in realtà frutto di una concezione errata dei rapporti esistenti tra le dinamiche della produttività del lavoro e dei salari; in effetti si tratta di una posizione controproducente ai fini sia della crescita sia degli equilibri sociali.
Intanto va ricordato che nell’ultimo quindicennio i lavoratori non hanno partecipato ai frutti della pur ridotta dinamica della produttività; i loro salari hanno recuperato a stento il tasso medio d’inflazione, ma hanno perso anche potere d’acquisto rispetto ai beni che maggiormente pesano nei loro consumi.
Nel frattempo, però, mentre i titolari di altre forme di reddito miglioravano la loro quota distributiva, i lavoratori dipendenti hanno visto peggiorare nettamente anche le loro condizioni contrattuali e le prestazioni pensionistiche attese. Un aspetto che si finge d’ignorare è che la produttività del lavoro non dipende solo e tanto dagli sforzi del singolo lavoratore, ma dalle tecniche produttive e dall’organizzazione complessiva le quali dipendono entrambe dalle scelte dell’impresa.
Il punto è che in Italia, negli ultimi quindici anni, gli investimenti privati sono stati di pessima qualità e le scelte imprenditoriali sono state dettate dall’obiettivo di preservare rendite di posizione. Proprio la possibilità di contare su una bassa dinamica dei salari ha spinto le imprese a perseguire la competitività essenzialmente sul piano dei prezzi, innovando poco o niente le produzioni e i processi produttivi. Così si spiega anche che nonostante l’occupazione sia aumentata, la crescita della produzione e del Pil sia stata relativamente bassa; in ogni caso solo una sua fetta continuamente decrescente è andata ai lavoratori, mentre sono cresciuti profitti e rendite.
In questo contesto, sgravi tributari a favore delle retribuzioni più basse non costituiscono una rimedio di carattere strutturale, ma sicuramente si giustificano sul piano distributivo, poiché anche a livello fiscale i passati provvedimenti di riduzione del cuneo fiscale hanno favorito i profitti e adesso ci sarebbe bisogno di un riequilibrio. Ma ancora una volta il Governo fa dipendere gli sgravi dalla crescita, e poiché questa è prevista in forte calo, non ci saranno risorse per gli sgravi fiscali a lavoratori e pensionati.
Tuttavia, per spezzare il circolo vizioso del declino occorre cambiare il modello di crescita; ma l’idea che si possa farlo legando i salari dei singoli lavoratori agli aumenti di produttività realizzati in ciascuna sede produttiva è del tutto privo di fondamento.
La crescita del Pil di un paese è senza dubbio legata alla dinamica della produttività del suo complessivo sistema produttivo. A sua volta, la crescita della produttività è legata al progresso tecnologico il quale, tuttavia, procede in modo difforme nei diversi settori produttivi, cioè esso si diffonde nelle industrie e nelle singole aziende in base a determinanti e con modalità che trascendono l’impegno dei rispettivi lavoratori.
Peraltro, con l’accresciuta integrazione economica internazionale e con gli sviluppi tecnologici affermatisi negli ultimi decenni, la crescita del reddito complessivo disponibile in un paese dipende maggiormente dalla sua competitività, la quale è legata sempre più alla qualità che non al prezzo della sua produzione, più all’innovazione produttiva che alla compressione degli oneri salariali.
Ma qualunque siano le determinanti e la misura della crescita dell’intero reddito nazionale, la sua distribuzione – in particolare, tra i lavoratori di diversi settori e aziende – non ha molto a che vedere con l’evoluzione delle rispettive produttività. Se si osservano le tendenze storiche, è facile constatare che in alcuni settori (specialmente in quelli industriali che maggiormente hanno incorporato il progresso tecnico) la produttività fisica è cresciuta relativamente molto; in altri (specialmente in quelli dei servizi dove prevale l’impegno diretto delle capacità umane) è cresciuta relativamente poco. Tuttavia, l’evoluzione dei salari nei vari settori non si è adeguata ai rispettivi andamenti della produttività. Ed è normale che sia così.
Il ruolo dei settori dove si produce ricerca di base, innovazione, istruzione e formazione è fondamentale per gli incrementi di produttività dell’intero sistema, ma nella specifica attività svolta in quei settori non ha nemmeno molto senso parlare di produttività e meno che mai di legare ad essa i salari di chi vi lavora.
Rintracciare un collegamento a livello aziendale tra crescita dei salari e della produttività rimane problematico anche se la produttività viene misurata in termini non fisici ma di valore monetario, ad esempio, in termini di fatturato per addetto. In tal modo, la misura della produttività e il confronto della sua dinamica tra diversi settori vengono a dipendere anche dall’evoluzione dei prezzi relativi.
Infatti, per il solo fatto che in un settore i prezzi aumentano di più che in un altro, il fatturato per addetto risulterà maggiormente accresciuto nel primo settore, indipendentemente dalle dinamiche della produttività fisica registrate in entrambi. Il punto è che i prezzi relativi e il valore attribuito alla produzione di ciascun settore e azienda dipendono da numerosi fattori indipendenti dalla produttività; in primo luogo i prezzi relativi dipendono proprio dalla distribuzione del reddito la quale, a sua volta, dipende dagli equilibri politici e dalla forza economico-contrattuale delle diverse parti sociali titolari di profitti, rendite e salari.
Dunque è la distribuzione del reddito che determinando i prezzi, influenza anche la misura della produttività espressa in valore. Peraltro, i fattori socio-politici che determinano la distribuzione del reddito non agiscono in modo omogeneo nei diversi settori, aziende e territori di uno stesso paese.Inoltre, i prezzi relativi sono influenzati anche da altre circostanze come le differenti condizioni di mercato (più o meno concorrenziali) diffuse nei diversi settori e territori di produzione.
Dunque, pensare che i salari pagati in ciascuna azienda dipendano dalla produttività dei rispettivi lavoratori non solo non corrisponde alla realtà del modo di funzionamento dei sistemi economici, ma comunque non costituirebbe un legame tra retribuzioni e “meriti” dei lavoratori. Il valore monetario creato da un’impresa dipende molto parzialmente dalla produttività fisica dei suoi lavoratori, la quale, peraltro, più che dalla loro capacità e disponibilità al lavoro, dipende dalle tecnologie messe a loro disposizione dall’imprenditore e dal settore più o meno aperto al progresso tecnologico in cui opera la loro azienda. In definitiva, la dinamica aziendale del fatturato per addetto cui si vorrebbe agganciare l’evoluzione salariale dei rispettivi dipendenti dipende molto da fattori esogeni all’impresa stessa e molto ancora dalle scelte che competono l’imprenditore.
In definitiva, la proposta di legare i salari alla produttività aziendale e di privilegiare la contrattazione decentrata non solo è socialmente e politicamente pericolosa, ma non è sorretta da solide ragioni economiche e risulta controproducente ai fini della competitività e della crescita.
Infatti il legame tra produttività aziendale e salari tenderebbe ad accentuare il meccanismo perverso diffuso nel nostro sistema produttivo che è alla base del nostro declino; è il meccanismo che illude le imprese meno dinamiche di poter sopravvivere senza investire in innovazione ma inseguendo la competitività di prezzo al ribasso, cioè contenendo la dinamica salariale e le prestazioni sociali, la sicurezza delle condizioni di lavoro e la stabilità occupazionale dei loro malcapitati lavoratori.
Naturalmente il risultato ultimo sarebbe negativo non solo dal punto di vista economico, ma anche per gli equilibri sociali e civili del nostro paese.
Abbiamo qui pubblicato un estratto dal paper “La questione salariale e la bassa crescita economica in Italia”. La versione completa è nell’allegato che si può scaricare: